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Quella della descrizione delle opere d’arte è questione venuta spesse volte alla ribalta nell’ambito della discussione sui compiti e l’essenza della critica d’arte. Michael Baxandall se ne occupa,con risultati giustamente considerati ottimi,nel suo splendido “Forme dell’intenzione”;e la considerazione forse più criticamente intelligente e condivisibile di questo libro di Pier Vincenzo Mengaldo,richiama,volutamente o meno,proprio la posizione di Baxandall,che scrive:<<Non si danno spiegazioni dei quadri:si spiegano le osservazioni fatte su di essi ( Mengaldo parla di <<sguardo che percorre l’opera>>). O meglio,spieghiamo i quadri solo nella misura in cui li abbiamo fatti oggetto di una descrizione o determinazione verbale>>- e da qui Mengaldo parte per ricostruire i modi con cui i critici d’arte compiono tale “determinazione verbale”. Il punto dolente del saggio nasce dal fatto che egli considera quello della descrizione come il momento centrale della critica d’arte:il fine ultimo della critica d’arte sarebbe dunque,secondo il pensiero mengaldiano,la descrizione dell’opera.. Possibile,vien da chiedersi,che la critica d’arte sia essenzialmente questo,una modalità (o l’insieme di varie modalità diverse) di descrizione? La critica d’arte,nel corso della sua storia,non ha forse dimostrato di avere scopi anche diversi,e forse,più gravosi e meno alla portata di tutti (poeti,scrittori,artisti)? Il fatto,credo io,è che se si accogliesse la tesi di Mengaldo si giungerebbe a una inevitabile svalutazione e banalizzazione della critica d’arte e dei suoi compiti- e questo anche nell’ovvia accettazione dell’idea di Wolfflin secondo cui <<non si può descrivere la forma senza farvi già confluire giudizi qualitativi>>. Tra l’altro,è lo stesso Mengaldo a rilevare che a volte <<l’ekphrasis rischia di essere eccessivamente subordinata a categorie storico-estetiche generali:è ciò che avveniva anche in Vasari,[...] più tardi anche in Winckelmann e poi in Wolfflin,e avviene in modo evidente anche in un critico come Berenson>>;ma egli sembra trattare i casi di questi critici d’arte (tra i più importanti nella storia della critica,tra l’altro) come delle eccezioni,o forse come degli errori,non giungendo alla facile conclusione che invece l’errore di valutazione è proprio il suo:i casi dei critici citati ( e non sarebbero i soli) dimostrano che non è scritto da nessuna parte che quello della descrizione sia per costituzione il momento clou o il fine ultimo del discorso critico sull’arte. Ed ecco che vengono analizzate,in maniera accurata e professionale,le strategie linguistiche adoperate dai critici d’arte nelle descrizioni di opere,strategie che servono ad annullare,almeno parzialmente,la distanza abissale tra verbo e immagine e a rendere possibile la descrizione . Analisi interessante che tuttavia non elimina l’errore di fondo:trattando la critica d’arte come un genere letterario tra altri generi letterari,non riconoscendole una peculiarità che distingua il critico dal poeta o dal letterato in genere,la si banalizza e la si rende cosa che chiunque sia dotato di una buona penna e tanta fantasia potrebbe fare (e infatti Mengaldo a un certo punto si mette a ricercare esempi di critica d’arte nel romanzo,nella poesia ecc.). Ecco quindi che l’infelice frase (infelice perché perentoria) <<… colui che sarà e di gran lunga il maggior critico d’arte del secolo trascorso,Roberto Longhi …>> non è che il risultato concreto dell’errore alla base di tutto il discorso.
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