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Giangiacomo Amoretti Su Padrona di giochi di luce di Silvia Cozzi “La poesia, per me, è vita” scrive Silvia Cozzi alla fine della sua raccolta di liriche, Padrona di giochi di luce. E davvero questa poesia, nella varietà dei suoi temi e dei suoi accenti, sembra dar voce immediata a tutta una ricca e mutevole esperienza di vita, in una chiave peraltro strettamente intima e personale: una vita che si esprime talvolta in malinconiche rievocazioni del passato, talvolta in abbandoni sereni alla gioia del presente, ora in vaghi trasalimenti dell’anima, ora in dialoghi dell’io lirico con se stesso; attraverso una voce che resta sempre riconoscibile, pur trascorrendo con leggerezza da modi sorridenti e addirittura ironici ad altri più seri e meditativi, nell’ambito di una ispirazione che potrebbe essere definita vagamente crepuscolare. Ciò che più colpisce il lettore è l’apparente naturalezza di questa voce lirica: si ha come l’impressione, infatti, che la poetessa si rivolga a noi dalle pagine del suo libro e ci parli con scioltezza e con spontaneità, senza alcuna posa e senza alcun artificio. Tanto più sorprendente è questo effetto in quanto le liriche di Silvia Cozzi, benché affidate a una pronuncia piana e dimessa, quasi – si vorrebbe dire – “sotto le righe”, sono governate sempre da una sapientissima orchestrazione metrica. “Padrona” davvero la poetessa, come recita il titolo, non solo di metaforici “giochi di luce”, ma anche e soprattutto di metri e di ritmi. Le sue scelte in questo campo sono in effetti le più varie: si va dalle forme classiche del sonetto – sia di tipo petrarchesco sia di tipo elisabettiano – e dell’ottava a un tipo di struttura più sciolta, che richiama il modello della canzone leopardiana (endecasillabi e settenari liberamente disposti e rimanti senza uno schema preciso), dall’adozione canonica delle rime al ricorso saltuario all’assonanza e alla consonanza, dall’uso dell’endecasillabo alla sperimentazione di altri versi meno “prestigiosi” ma pur sempre consacrati dalla tradizione, come il settenario, il novenario dattilico e il doppio senario. Nessuno sfoggio di bravura peraltro, nelle poesie di Silvia Cozzi, e certamente nessun gusto per una ripresa nostalgica delle forme antiche: in Padrona di giochi di luce, infatti, la metrica si accompagna sempre senza alcuna dissonanza a quella naturalezza, a quella scioltezza di discorso di cui parlavamo, tanto che il lettore potrebbe quasi non accorgersi, o comunque potrebbe talora dimenticare, che versi in apparenza così fluidi e scorrevoli siano in realtà sottomessi ai vincoli della metrica più rigorosa. Sono vincoli, ovviamente, che la poetessa sfrutta con grande abilità ai fini delle proprie esigenze espressive: il metro, in questi versi, ha infatti la funzione di alleggerire la parola da ogni peso eventuale di prosaicità o di concretezza diaristica, avvolgendola in una musicalità rarefatta e sollevandola in uno spazio di ideale letterarietà. In tal modo cade ogni rischio di grezza effusione sentimentale e la poesia viene assumendo, nei momenti migliori della raccolta, una duplice valenza, insieme letteraria e autobiografica, dove la letteratura corregge, in chiave ironica, la confessione autobiografica e quest’ultima, a sua volta, “abbassa” la forma letteraria a una misura di quotidiano, sorridente realismo. Ne deriva talvolta – e sono gli esiti poeticamente più significativi del libro – un equilibrio fragile ma incantevole fra musicalità e parola autobiografica, fra dissimulazione ironica e autoconfessione sincera che non può non far pensare a uno dei poeti a cui, insieme a Pascoli e a Leopardi, Silvia Cozzi sembra maggiormente debitrice, cioè a Gozzano: “Ma mentre la voglia mi afferra, / rimango coi piedi per terra. / Se muovo le braccia un pochino, / somiglio di certo a un pinguino. // Sconfitta continuo a sognare, / cercando di sdrammatizzare. / Rimango col naso all’insù, / ma è un attimo e già non c’è più”.
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