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L’incipit di questo libro è un pezzo di pane caldo. Ne puoi sentire l’odore. È avvincente non perché si rifaccia chissà a quale diavoleria pubblicitaria utilizzata spesso di questi giorni come tecnica per attrarre l’attenzione del lettore. No. È avvincente perché è di una tenerezza disarmante. “Nutrivo solo una speranza: poterlo riabbracciare. Parlo di mio marito”. Quando l’ho letto non ho visto il volto di una donna matura abbandonata dal suo uomo, ma la sagoma di una bambina, sola in mezzo a una piazza deserta. È l’intenzione dell’autrice, si capisce poi leggendo la storia, ne fa degli accenni penetranti… proprio come un coltello che entra nel pane appena sfornato, lentamente ma con decisione. È la seconda volta che il pane entra in questa riflessione su “Christiane deve morire” e c’è un motivo anche per questo perché il pane, il panettiere (l’uomo del pane fece finta di niente, era una canzone), Alfredo (sempre colpa sua, un’altra canzone) Christiane dello Zoo di Berlino (best seller da cui fu tratto anche un celebre film), brown sugar, sono tutti elementi di un pantheon di mitologia da strada molto diffuso negli anni ottanta al nord d’Italia e a fine anni ottanta inizi novanta al sud, quando nel nostro stivale ci fu il boom dell’eroina. E chi se lo ricorda?, è passata una vita. Sono convinto che chi ha vissuto la strada di quegli anni, se lo ricorda perfettamente. Per me questa storia è stata un calcio nel culo indietro nel tempo, nella preistoria della mia adolescenza. Sono tornato spesso sui passi in cui il personaggio principale, la giornalista Varrani – il cui capo manda spesso in un campo rom ossessionato da notizie che potessero infangare gli apolidi – parla di questo suo marito. Quest’uomo l’ha abbandonata per un’altra donna, ma se sfogliate il libro non troverete una sola mala parola contro di lui (forse all’ultimo, un idiota? Il lettore attento si renderà contro che la mia è solo una supposizione – un giallo del subconscio? Cara Tomassini, c’ho pensato tutta la notte!). Varrani parla di quest’uomo come di un’età dell’oro perduta, facendo quasi intendere che probabilmente questo marito non è altro che una sorta di amico immaginario. Questa è l’impressione, poi i pezzi si assemblano verso la fine (la mia supposizione!). Fermo restando che la parte in cui l’autrice parla dei rom (e del degrado e del pregiudizio nei loro confronti ma anche di quanto le loro abitudini siano effettivamente assurde) è importante nella struttura complessiva del romanzo, io credo comunque che sia propedeutico alla vera intenzione dell’autrice il cui obbiettivo in realtà è dare vita a un personaggio, la Varrani, che con la maturità, e il distacco che caratterizza questa età, cerca di comprendere il proprio passato o meglio un’assurda adolescenza vissuta ai margini della società, in una vallata di degrado in cui si snocciolano le vite di Alfredo, U pazzu, Cetty e infine Massimo, che era il suo fidanzato e soprattutto Christiane, l’eroina, il libro che ha sconvolto l’adolescenza della Varrani, la chimica che ha ucciso buona parte dei suo amici. È Christiane che le ha portato via Massimo – ed è Christiane che deve morire! L’ossessione deve finire. La tecnica che utilizza la Tomassini, questa sua maniera superba di impastare (di nuovo il pane!) diversi dialoghi, pensieri, immagini e situazioni nella stessa logica narrativa, mi ha ricordato un piccolo capolavoro di tanti anni fa, “La foresta della notte” di Djuna Barnes. La Tomassini però ha una maggiore considerazione del lettore e si riesce a seguirla con più chiarezza. Questa creanza cementifica dei passaggi lirici che appaiono come scolpiti sulla roccia, semplici, profondi, eterni. Un libro che consiglio con tutto il cuore.
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