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Anno edizione: 2017
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All’inizio di questo romanzo l’autore riporta la genealogia di Leonide dei Longobardi, principale personaggio dell’opera stessa; si tratta di un numero rilevante di nomi, alcuni dei quali saranno propri di semplici comparse, ma altri invece corrisponderanno a individui capaci di brillare di una luce propria. Se devo essere sincero tutti questi personaggi mi hanno subito portato a un senso di disorientamento, memore dei racconti che mi faceva ogni tanto mia nonna, membro di una famiglia patriarcale assai numerosa, in cui abbondavano fratelli, sorelle, genitori, zii, nipoti, cugini, un vero e proprio esercito di cui lei ben conosceva i nomi che mi sciorinava e che più delle volte mi lasciavano perplesso per la confusione che mi veniva ingenerata. Poi, pensandoci bene, mi sono tolto ogni remora e mi sono detto di leggere senza preoccuparmi tanto di vedere come si ricollegavano i nomi, ma seguendo puramente e semplicemente le vicende, con particolare attenzione a quelle di Leonide Lusetti, la cui scomparsa avvenuta nel 1983 ha posto fine alla casata dei Longobardi. E’ una scelta di lettura, peraltro, che è quasi imposta perché il personaggio è del tutto particolare e intorno a lui ruotano i fatti, piccoli e grandi, di un secolo, il XX. Non è una novità narrare di un’epoca sulla base delle vicende di una famiglia, ma parlarne e riuscire a rendere avvincenti fatti in sé normali e non eclatanti non è facile, anzi denota una grande capacità, tanto più che a fronte di queste piccole storie sullo sfondo si muove la grande storia, la Grande guerra, l’avvento del fascismo, la seconda guerra mondiale, il dopoguerra di fame e di speranza, il benessere economico. Però la chiave di lettura dell’opera non è solo questa, perché prevede anche la descrizione della fine di una civiltà che non tornerà più, quella contadina, con quel legame profondo con la terra che fra timori e superstizioni in individui più sensibili, come appunto Leonide, porta a scoprire facoltà paranormali, ben oltre le asserite capacità di un medium, in quel confine indefinito fra vita e morte in cui tutti si agitano. La creatività di Pardini è indubbia, perché riesce a raccontare tanti fatti, imprigionandoli in una patina di tempo andato, una serie di fotogrammi che sollecitano il lettore ad andare avanti, per sapere, per conoscere. Quella che a un esame superficiale potrebbe sembrare una telenovela, in realtà sono le testimonianze di un’epoca non lontana in termini di tempo, ma ormai antichissima come modo di vita. Credo che Pardini, con quel suo stile semplice e pur efficace, che definirei da naif, con questo romanzo sia riuscito a dare il meglio di se stesso, realizzando un’opera di sicuro interesse e che merita ampiamente di essere letta, anche perché, nonostante tanti personaggi, è riuscito a differenziarli perfettamente, sempre però facendoli apparire come propri della loro epoca, con i loro difetti, i loro pregi, i loro sogni e le loro speranze. Per quanto concerne il tema della natura, da sempre ricorrente nelle opere dell’autore, in questa ha assunto un rilievo del tutto particolare, presentata a volte come diabolica, altre come mite e sereno corollario, il tutto solo ed esclusivamente secondo quello che in un determinato momento è lo stato d’animo dei personaggi; in ogni caso la descrizione dei panorami assume toni poetici e le atmosfere sono rese così bene da ottenere la partecipazione del lettore. Ritornare indietro nel tempo, di cui solo in parte si è avuta esperienza diretta, è un po’ ricercare le proprie radici che non sono dissimili, nella zona toscana in cui è ambientato il romanzo, dalla zona lombarda in cui sono nato e abito. Al riguardo ho notato che, nel ricordo dei racconti di mia nonna, ci sono tanti punti di contatto, per quanto concerne per esempio la superstizione, ma anche per quanto riguarda certe figure che, in possesso di una vena poetica e di uno spirito acuto di osservazione, tanti anni fa vergavano delle pasquinate riferite per lo più a questioni di corna, operette satiriche anonime, ma di cui era possibile intuire il nome dell’autore; ebbene, anche nel romanzo ce ne sono diverse, stilate da Pardini, e devo dire che mi hanno divertito, cogliendo anche il loro scopo o di rafforzare una proposizione, oppure di stemperare la tragicità di certi eventi. Non aggiungo altro, perché non ce n’è bisogno; l’opera vale molto di per se stessa, come potrà constatare chi avrà il piacere di leggerla.
In Grande secolo d’oro e di dolore (Il Saggiatore), Vincenzo Pardini ci restituisce il romanzo di Leonide Francesca Lusetti, l’ultima dei Longobardi, antica casata della Garfagnana, discendente – come si vorrebbe – dallo stesso Liutprando. Stirpe di dèi, ma soprattutto di guerrieri per i quali, uomini o donne che siano (come nel caso di Leonida, appunto), la terra è ancora il bottino da conquistare, difendere, mantenere. E la terra, i suoi ritmi, i cicli, la natura è un punto centrale della narrazione. Forse, il baricentro vero e proprio. Di fatto, si fa un po’ fatica a definirlo romanzo, a incasellarlo in un macro-genere letterario, non perché si presenti agli occhi del lettore come biografia o cronaca o documento (o se pure così appare all’inizio, la sensazione è breve, e lascia presto il posto a un coinvolgimento di più ampio respiro), ma perché, in ultima analisi, qualunque definizione calzerebbe stretta, avanzerebbe o scarseggerebbe, per eccesso o per difetto: questo lavoro di Pardini non ha una misura unica con cui essere, sebbene non etichettato, ché le etichette sono sempre brutte, oziose e fini a sé stesse…, quanto meno inquadrato. E allora lo si prende – e lo si apprezza – per quello che è: il lungo racconto della vita di una donna, Leonide appunto, dalla sua nascita nel 1899 alla sua morte nel 1983, una vita lunga poco meno di cent’anni, che gli storici hanno ribattezzato “il secolo breve” e Pardini “grande secolo d’oro e di dolore”, e questa sì, invece, è una definizione azzeccata, perché non vi è dubbio che il Novecento sia stato (anche senza ripercorrerlo puntigliosamente) anni di immenso dolore ma anche di grande splendore, di conquiste, innovazioni, limiti e orizzonti sempre spostati un po’ più in là. E tuttavia, la discrasia tra le due espressioni si giustifica col fatto che il tempo al quale si rivolge l’autore, pur essendo lo stesso sotto il profilo cronologico, non lo è sotto quello individuale, attinente cioè la nostra Leonide Lusetti: per lei il Novecento è il secolo della parabola di famiglia, d’oro nei punti ascendenti e di dolore in quelli discendenti.
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