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Anno edizione: 1998
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Questo breve romanzo – scritto dapprima in russo nel 1930 e poi in inglese nel 1965 – si fonda su una vertiginosa scommessa: raccontare come, dopo un suicidio, il pensiero umano possa continuare a vivere «per inerzia» e costruirsi un romanzo alternativo alla realtà, con la quale poi finirà per collidere. La scena è quella degli emigrati russi a Berlino, mondo fragile e illusorio, congeniale a una narrazione dove Nabokov scatena tutti i suoi estri in tema di specchi, riflessi, sdoppiamenti – come dire il terreno peculiare su cui si svilupperà la sua arte.
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Un libro indubbiamente particolare, sicuramente non un libro da "seconda serata", temo però di non averlo compreso pienamente, ho buone speranze nella rilettura
Nabokov isn't for me. The eye is my first experience with this author (don't even think this is one of his bestsellers) and I don't know how to review it. The beginning is quite clear and fluid then all of a sudden he dies, that's the exact moment when the story and more important the writing structure has become a lot more confused for me. This is probably on me, but understanding the main character had the features of an eye didn't come till half the book. Nabokov writing style is hard to follow, the sentences are very articulated and it was easy getting lost in them; as for the plot it does have some hidden gems but in the end "the eye" wasn't my cup of tea.
Il romanzo è ambientato tra gli emigrati russi in una vivace Berlino che allora si presentava come un centro culturale di attrazione per l’intera intellettualità europea. Nella prefazione, Nabokov scrive provocatoriamente: “Sono sempre stato indifferente ai problemi sociali, mi sono semplicemente servito del materiale che avevo a portata di mano, così come un commensale spensierato può disegnare a matita un angolo di strada sulla tovaglia o disporre una mollica e due olive in posizione diagrammatica tra menu e saliera”. I commentatori più impegnati hanno rimproverato allo scrittore “questa indifferenza per la vita di gruppo e per l’irrompere della storia”, accusando i suoi libri “di una totale mancanza di rilievo sociale”. In realtà, anche in questo “ghirigoro di racconto”, come lo definisce l’autore, l’attenzione alla società e ai suoi ruoli codificati esiste, eccome! sebbene l’ottica privilegiata sia quella più strettamente psicologica e della critica di costume, spesso polemica e beffarda. La vicenda si dipana con tranquilla agilità (tra rivelazioni a sorpresa, scambi di persona, riconoscimenti a incastro) fino all’epilogo, imprevedibile e spiazzante, che dovrebbe sperabilmente svelare la reale natura del protagonista. Ma “l’inferno di specchi” in cui si riflettono i vari personaggi in realtà non è che la moltiplicazione del medesimo tipo umano, una proiezione dello stesso occhio narrativo, una fantasia post mortem che già negli anni ’30 presupponeva l’esistenza di avatar ingannevoli. Da un tempo trascorso e perduto lo sguardo contempla un presente fasullo, che si propaga per inerzia al di là dell’esistenza concreta, addirittura pevalicando la morte individuale, su un palcoscenico in cui si muovono inconsistenti e fragili comparse, “sfarfallio su uno schermo”: l’unica felicità possibile “sta nell’osservare, spiare, sorvegliare, esaminare sé stessi e gli altri, nel non essere che un grande occhio fisso, un po’ vitreo, leggermente iniettato di sangue”.
Recensioni
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