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Anno edizione: 2007
Anno edizione: 2007
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great music
Dopo vent’anni di attività, un’esistenza non proprio fortunata (vittima di un gravissimo incidente stradale in gioventù, era costretto sulla sedia a rotelle) ed una produzione di tutto rispetto, con il suo undicesimo album Vic Chesnutt sfiora il capolavoro. Un disco, questo “North Star Deserter”, nel quale ritroviamo il “mestiere” e la maturità da vecchia volpe del folk senza che si perda un grammo della freschezza e della sincerità che ha sempre contraddistinto i lavori del Nostro. Le coordinate sono quelle del songwriting tradizionale morbido, vagamente sinistro e claustrofobico, dai testi spesso surreali e amari, come ci fa subito capire la profonda e agrodolce intro Warm che si muove in terreni noti a Townes Van Zandt. L’attenzione alle atmosfere evocate dagli strati sonori che spesso circondano, disturbano e avvolgono la chitarra e la voce di Chesnutt tradisce però una parentela con il miglior post-rock. Chesnutt è infatti affiancato in questa sua ultima fatica, registrata in quel di Montreal, da uno stuolo di colleghi e compagni di etichetta di tutto rispetto (A Silver Mt. Zion al completo, parte di Godspeed You Black Emperor! nella persona di Bruce Cawdron), non semplici orchestrali agli ordini del direttore, ma ricamatori di trame e atmosfere che sono parte integrante e inscindibile di questo album. D’altronde l’avvicinamento tra il songwriting (il lato apparentemente più “conservatore” del rock) ed il post-rock (il suo presunto superamento, implicito nel suffisso “post”) era già nell’aria da un po’. Molti post-rocker avevano già dato voce alle loro trame sonore addirittura abbracciando in toto la forma canzone con risultati notevoli (pensiamo agli ultimi Mogwai o ai nostrani Giardini di Mirò) a dimostrazione del fatto che, nella musica e nell’arte tutta, qualsiasi “post” non implica mai la cancellazione del passato ma se ne nutre rappresentandone soltanto una delle possibili evoluzioni. La cupa atmosfera post-folk (e dagli con ‘sti “post”) o alt-country (chiamatela come volete), insomma l’approccio cantautorale “classico” di Chesnutt, lascia infatti spesso e volentieri il posto a un’orchestralità oscura e distorta e a crescendo e spasmi elettrici al limite del noise (anche se il “rumore” è sempre funzionale alla composizione e mai fine a se stesso). Di un’intensità a tratti travolgente, dopo la ballata ubriaca e vagamente balcanica Glossolalia che ricorda il miglior Matt Elliott (cantato doloroso, inserti d’archi storpiati e cori intensi e sghembi), Everything I say ti coglie impreparato, ti illude con un inizio in sordina e ti attacca alle spalle con stilettate elettriche distorte, organetti acidi, violini urlanti, accelerazioni e bruschi rallentamenti. Non cito a caso Elliott, quello delle drinking songs (personalmente il migliore), perché è da quel disco che non sentivo qualcosa di così dolcemente tragico. Qualcosa che ti attira e scatena il sottile e masochistico piacere che si prova nel tormentarsi un dente dolorante. Le atmosfere quasi bucoliche chitarra-voce-flauto di Wallace Stevens e country di You are never alone danno un po’ di respiro (ma non concentratevi troppo sui testi) e Fodder On Her Wings Poi, quando credi di essere finalmente al sicuro nelle quasi dylaniane lande classic-folk, per quanto alienate e alienanti, di Over (Necrofilia???), Debriefing, con la presenza percepibile della chitarra del fugaziano Guy Picciotto, ti assale nuovamente con squarci di distorsione rabbiosa che graffiano uno strato di dolente rassegnazione. Qui lo scheletro vagamente Dark-Wave (mi spingo troppo oltre se penso ai Joy Division?) costruito dalla sezione ritmica (praticamente assente nel resto del disco) contribuisce ad alzare il livello della tensione. La doppia anima di “North Star Deserter” emerge lungo tutto il percorso alternando canzoni dal chiaro stampo folk/songwriting, arrangiamenti d’archi e pianoforte, field recordings dell’amico Picciotto, schizzi acustici minimalisti, distorsioni graffianti, e il risultato di ciò è evidente in brani come “Marathon”, e “Splendid”, nei quali queste sostanze si (con)fondono, determinando un balzo in avanti per il “cantautorato” di Chesnutt da una parte, ma anche per il post (?) rock, qualunque cosa questo termine rappresenti oggi. Vic ci mancherà. Mancherà a pochi, ma ci mancherà molto.
Recensioni
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