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Leggere questa storia di una comunità chiusa della nostra antropologia dell'altro giorno, lascia stupiti. Gli uomini e le donne, se non sono malati nel fisico, soffrono nello spirito come se quel poco di serenità e, raramente di felicità, fosse una coperta troppo corta che danneggia a turno i personaggi. Grazia Deledda sa mettere l'amore per la sua terra nelle descrizioni dei paesaggi che si riempiono di luce e di colori, acqua che scorre, erba che cresce tra le pietre, canne che si flettono producendo fruscio, insetti che ronzano e fiori che sbocciano. Il mare, in lontananza, è più una barriera naturale a protezione, che una possibilità di comunicazione. Questi squarci di Sardegna mi hanno ricordato una certa iconografia giapponese ma, a pensarci bene, gli stessi giapponesi sono isolani.
Ci sono autori con cui non ho un buon rapporto, la Deledda è fra questi: avendola letta da giovane è sempre rientrata tra gli scrittori da evitare , ma l'imperscrutabile forza del destino (semicit) fa si che purtroppo certi incontri letterari si debbano ripetere e così alla fine ne ho letto anche il capolavoro . Posto che la storia romanzata è basata su avvenimenti reali (e che ricordo di aver goduto molto di più del racconto quando la mia professoressa preferita delle medie ci raccontò il mero 'gossip' su come si svolsero gli eventi), i miei problemi con Grazia - dopo anni di insopportazione accompagnati da visite alla sua casa museo (ehi! la casa museo ha un giardino BELLISSIMO, se passate da Nuoro visitatela), alla sua tomba, a café di Cagliari che furono frequentati anche da lei mi permetto di chiamarla col nome di battesimo - dicevo, i miei problemi con Grazia sono su due piani: - lo stile: sebbene la sua prima lingua fosse il sardo e quindi scrivesse in italiano come seconda lingua, mentre non mi disturba il fatto che la narrazione (oltre che i dialoghi) siano impostati sulla base del sardo parlato (mi disturba un po' che i personaggi usino il lei anziché il voi ), ho trovato insopportati le descrizioni intrise di un lirismo fin troppo adornato di litoti e epanalessi (si, questa come figura retorica ho dovuto ricercarla!); - i personaggi: più che vederli vivaci e in movimento lungo la narrazione sono figure statiche, senza una parvenza di crescita o mutamento interiore, statiche in una descrizione - per carità estremamente scarna - dei loro caratteri che non vede mutamenti di sorta malgrado le sorti avverse che si ritrovano ad affrontare. E per questo per me manca di quell'universalità che dei buoni personaggi sanno conferire ad un'opera anche quando le vicende narrate sono normali , quotidiane. Certo, ammetto che la lettura possa essere stata inficiata dal ritrovare, in questo mondo più onirico che realista, intriso di richiami al folklore, basato più sul ricordo di chi ormai non abitava più quei luoghi piuttosto che sulla veridicità della narrazione, quello che poi diventerà il 'modello narrativo deleddiano' della Sardegna, quello in cui noi stessi sardi ci avviluppiamo con le distinzioni tra il centro dell'isola visto come Sardegna più vera, più dura etc rispetto alle città costiere considerate 'spurie', quasi i loro abitanti non fossero 'veri sardi' così faticando a far emergere le diverse realtà di un'isola che in sé accoglie molti più contrasti e mutamenti di quelli raccontati da Grazia nelle sue opere (e che già agli inizi del '900 - quando questo romanzo è stato pubblicato ed anche grazie alla Deledda - era sì una terra selvaggia e aspra ma che già vedeva anche nella stessa cittadina di Nuoro soprannominata l'Atene Sarda un fermento artistico e culturale inimmaginabile leggendo le sole pagine deleddiane).
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