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Anno edizione: 2016
Anno edizione: 2013
Anno edizione: 2019
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Nel paese degli uomini freddi, incastonato fra le montagne come un coltello nel fodero, nevica sempre, anche d’estate. Per questo le persone hanno una carnagione pallida, e la loro pelle è fredda come la neve, tanto che solo dopo la morte sembra scaldarsi un poco. Ogni anno rinnovano un patto attraverso l’antico rito del miele, con cui s’impiastricciano le mani unendosi in un girotondo. La sera, gli uomini freddi cantano nenie sulla memoria degli avi, e incidono la loro storia sulla roccia di una caverna per non dimenticare. Insieme ricostruiscono il paese quando è distrutto dalle valanghe, dopo avere cavato i morti dalla neve e averli seppelliti senza lapidi, come loro usanza. Per chi già conosce Mauro Corona sa qual è il suo stile di scrittura. Schietto e anche un po' cupo, drammatico, duro come la vita nelle montagne, e anche malinconico.
È la metafora della storia dell’uomo dei sacrifici che ha fatto per raggiungere il benessere odierno. Ma con quale dolore, a cosa abbiamo dovuto rinunciare per avere questa prosperità? Parla del rapporto dell’umanità con la natura con la madre terra, che ci ospita e custodisce nella vita come nella morte. Leggendo questo libro, nascono spontanee tante domande introspettive. È un libro che ti prende, fa ragionare. Ogni personaggio è speciale è umano è vero come i luoghi, nonostante ci siano le api bianche che fanno il miele bianco.
Sono sempre stato un estimatore di Mauro Corona, un eccellente scrittore, le cui opere grosso modo si dividono in due filoni, a volte congiunti: quello che si potrebbe definire memorialistico, e che si traduce in un culto del ricordo, e quello più propriamente narrativo, cioè dove predomina la fantasia creativa. Non saprei dire in quale dei due inserire La voce degli uomini freddi, perché c’è si tanta inventiva, non disgiunta tuttavia da eventi accaduti realmente che, se anche non sono riportati con l’esatto nome, sono tuttavia facilmente identificabili (basti a pensare al finale che ripropone una tragedia come quella del Vajont). Essenzialmente ci troviamo in presenza di una favola e, come dovrebbero essere tutti gli scritti di questo genere, con una morale ben precisa. L’uomo non deve sovrapporsi alla natura, ma vi si deve adattare, come questo popolo freddo che da centinaia di anni resiste al gelo e alla neve, anche d’estate, al vento fortissimo, a temporali spaventosi e perfino alle valanghe, imparando di volta in volta qualche cosa e traendo così un’esperienza, da trasmettere ai posteri, per la continuazione della specie. Guai a chi, per sete di guadagno, vuole forzare la natura, perché questa si scatenerà e a farne le spese saranno solo e sempre gli esseri umani, come testimoniato dalle tragedie che colpiscono ogni anno diversi stati, compreso il nostro. La morale è quindi evidente e senz’altro condivisibile; però mi chiedo una cosa: per esprimere questo concetto così importante che bisogno c’era di scrivere la bellezza di 235 pagine? Peraltro, la narrazione, sempre così dinamica nei testi di Corona, qui è monocorde, quasi una nenia ossessivamente ripetuta. L’assenza poi di dialoghi e questo modo di esporre, imbastendo una vicenda con frequenti ripetizioni, finisce con l’annoiare chi legge, tanto che mi è venuta la tentazione più volte di chiudere il libro a dove ero arrivato, non andando più oltre. Quello che mi spiace maggiormente è che l’idea di fondo è buona, ma purtroppo sviluppata male, con una trama debole che, a differenza di altri romanzi dell’autore ertano, si trascina – diciamolo francamente – in modo penoso. Poi può anche darsi che questo mio giudizio così drastico sia del tutto errato, visto che l’opera è finalista a un premio prestigioso come il Campiello di quest’anno; resta però un fatto e cioè che uno come me, che ha trovato sempre appassionanti i romanzi di Corona, questa volta è arrivato all’ultima pagina con estrema fatica, nella continua e inutile speranza che qualche cosa cambiasse, che oltre agli uomini freddi anche l’autore diventasse un po’ meno gelido.
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