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Le prime pagine del libro
C'era una volta dopo l'amore
Mi stava lasciando. O meglio, stava tentando di farlo ma non gli stava riuscendo molto bene. Cercò una scusa, quando io sapevo che la ragione era solamente una: non mi amava più. È l’unico motivo per cui le persone si lasciano.
Era stato il mio primo amore. Un primo amore trovato un po’ tardi, a diciotto anni. E non c’è nessun trauma particolare dietro la scelta di non avere relazioni prima di allora: semplicemente, non sono mai stata una fan sfegatata degli esseri umani.
«Non lasciarmi sola» gli sussurrai. «Posso cambiare» promisi.
Vidi un guizzo nel suo sguardo, quello di chi è ancora più consapevole della sua scelta e non tornerà sui suoi passi.
Mi stava lasciando dopo quattro anni di relazione in una stazione dei treni, che squallore.
Supplicandolo di restare non feci altro che spingerlo ancora più lontano da me. Era quello il punto, la ragione per cui si stava allontanando: io ero io, e per farmi amare sarei dovuta essere un’altra persona.
«Mi dispiace Rebecca, ti ho amato ma non me la sento di continuare questa relazione.»
Mentre un emisfero del mio cervello pensava “cristo, che scusa ridicola”, nell’altro successe qualcosa. Qualcosa che mi tolse anche quella poca forza di reagire che mi era rimasta.
“Ecco, un ictus” pensai, quando la luce sparì dai miei occhi e l’oscurità mi avvolse, “tra due secondi mi si paralizzeranno gli arti e cadrò in avanti con la faccia nelle rotaie.”
Ma non successe niente di tutto questo. Il buio diventò un po’ meno denso e riuscii a scorgere una luce fioca.
Nella penombra vidi una donna. Alta, i capelli lunghi e rossi, le spalle dritte e il portamento austero, vestita con un abito stretto in vita da una fusciacca. Avanzò in una stanza che non conoscevo, illuminata dalla luce pallida proveniente da due ampi finestroni. Il tetto della stanza era marcio, le pareti erano ricoperte da una carta da parati logora e strappata. In un angolo c’era un antico caminetto di mattoni scuri che sembrava aver visto ardere l’ultimo fuoco migliaia di anni prima. Pezzi di quella che mi sembrava un’armatura giacevano abbandonati sul pavimento sconnesso.
Mi trovavo in una stanza che stava cadendo a pezzi in cui guardavo una donna sconosciuta intenta a osservarmi mentre venivo mollata. E a quella scena irreale io assistetti come se fossi lì, da qualche parte sul soffitto. Come un pipistrello appeso tra i diademi di cristallo di uno sfarzoso lampadario d’antiquariato.
La donna si avvicinò alle vetrate antiche e impolverate e guardò ciò che vedevo io. Quelle finestre erano i miei occhi e quella stanza doveva essere la mia testa. Lei mi osservò mentre stringevo la giacca di Vincenzo e lo scuotevo con poco vigore mentre singhiozzavo.
«Quello è il mio treno.»
Il suono della sua voce, rimasta sepolta per lunghissimi minuti nel concerto dei miei singhiozzi, mi scosse dal torpore.
Mi guardai intorno. C’erano coppie che si abbracciavano dopo essersi rincontrate, mentre io ero lì a sperare in un suo cambio di programma, come se ritornare ad amare qualcuno richiedesse cinque secondi.
Avevo già capito da tempo che voleva lasciarmi, solo che avevo sempre sotterrato quella certezza come polvere sotto il tappeto.
Lo sapevo quando toglievo la SIM dal telefono credendo che l’assenza di una sua risposta dipendesse da un capriccio dell’elettronica. Non era così. È che non gli interessava la mia giornata.
Sapevo che voleva lasciarmi quando non si fermava mai più del previsto, non aveva mai perso nessun treno da quando stava con me. Anche in quel momento, in cui chiunque si sarebbe degnato di compiere un ultimo gesto gentile per la persona con cui aveva condiviso dei momenti importanti, anche allora non faceva altro che controllare l’orologio e guardare la curva alla fine dei binari in attesa della sagoma della locomotiva.
«Giuro che sarò meno lamentosa. Giuro che ti accarezzerò di più. Giuro che sarò più dolce.»
Stavo giurando di abbandonare me stessa per lui.
Vincenzo scosse la testa e mi abbracciò senza passione. Un ultimo abbraccio dal mio amore con cui credevo sarei potuta invecchiare. Infilai le mie unghie nel suo maglione e lo sentii accarezzarmi la spalla con freddezza.
Due abbracci diversi. Il mio disperato, il suo di liberazione, come se fosse pronto finalmente a iniziare una nuova vita.
«Arrivederci.»
Arrivederci un cazzo. Era un addio, e lo sapevamo entrambi.
Il treno si fermò stridendo, le porte si aprirono.
«Ti prego, ti prego, no» supplicai ancora una volta mentre lui metteva il piede sul predellino.
«Può ancora funzionare» dissi. La mia dignità aveva comprato un biglietto di sola andata per la Cina.
«È da tanto ormai che non funziona» sbuffò voltandosi. «Scusami.»
Le porte del treno si chiusero. Non si girò neanche una volta. Il treno partì e io restai immobile al binario 12, come se niente fosse capitato. Poi sentii le lacrime calde rigarmi le guance, le gambe mi cedettero e mi inginocchiai abbracciandomi da sola, spezzata.
Doveva essere una scena davvero pietosa se in una città come Milano, in cui notoriamente la gente tende a farsi i fatti propri, un paio di persone si avvicinarono e tentarono di rimettermi in piedi mormorando parole gentili. Io ero senza forze, così mi lasciai trasportare quasi a peso morto sulla panchina.