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Anno edizione: 2020
Anno edizione: 2022
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Paolo Rumiz tiene un diario della clausura che entra sotto la pelle della cronaca, per restituirci il cuore di una grande mutazione, «al termine della quale non saremo più gli stessi».
Nel vuoto della quarantena, la bora pulisce l'aria, il mondo è sfebbrato, respira. La casa miagola, geme, rimbomba come un pianoforte pieno di vento mentre la città stessa vibra come un sismografo su linee di faglia. E un mattino l'autore sale per una botola fin sul tetto, che diventa il suo veliero. Lì il suo sguardo si fa aeronautico, gli spalanca la visione della catastrofe e allo stesso tempo del potenziale di intelligenza e solidarietà che può ancora evitarla. Gli svela un'Europa col fiato sospeso, dai villaggi irlandesi alle isole estreme delle Cicladi, dalle valli più segrete dei Carpazi al lento fluire della Neva a Pietroburgo. Milioni di persone che vegliano, incerte sul loro futuro. Gli affetti veri sono resi più vicini dalla forzata lontananza, e si scrive a chi si ama come soldati in trincea, mentre il virus accelera la presa d'atto di un processo che obbliga a riprogettare il proprio ruolo di cittadini in un mondo diverso. Della clausura Rumiz tiene un diario che entra sotto la pelle della cronaca, per restituirci il cuore di una grande mutazione, «al termine della quale non saremo più gli stessi». Non è più tempo di guardarsi l'ombelico. Ora i narratori hanno una responsabilità enorme, devono offrire visione, prospettiva, consapevolezza, speranza. Ma non una speranza astratta, beota. No, quella vera, che nasce dal suo opposto, dal fondo della disperazione.
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E' la prima volta che leggo un testo di questo autore e devo riconoscere che mi ha piacevolmente sorpreso per la sua scrittura scorrevole, una bella prosa indice di uomo di cultura (e io sono affascinata dagli uomini di cultura!) capace di fare collegamenti a 360 gradi e offrire interessanti spunti di riflessione e temi di discussione su un argomento quanto mai attuale: la prima "ondata" del covid-19. Paolo Rumiz tiene un diario di bordo dal 12 marzo alla fine di aprile 2020 ripercorrendo la prima fase della pandemia in quarantena descrivendone criticità e aspetti piacevoli.. Mi ha particolarmente colpito la questione che l'autore solleva: si resta a casa per rispetto dell'altro, per evitare di contagiarlo, o per paura dell'altro, la paura di essere contagiati.. effettivamente, a pensarci bene, il comportamento degli italiani (ma direi anche degli europei) è proprio legato a questa semplice domanda... se prevalesse il rispetto sarebbe sinonimo di integrazione, di una società funzionante e comunitaria, se invece, al contrario, a prevalere è la paura ci si troverebbe in una situazione di " tutti contro tutti", in un società disintegrata, impoverita, dove ad emergere sono le diseguaglianze e l'egoismo personale...
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