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Le prime pagine del romanzo
CLAIRE Kelly, con due sacchetti della spesa in mano, salì su per le scale, fino all’appartamento al quarto piano dove viveva da nove anni, nel quartiere di Hell’s Kitchen, a New York. Indossava un tubino nero di cotone e un paio di sandali sexy, con il tacco alto, e con lacci che le arrivavano alle ginocchia, acquistati a una fiera in Italia, un anno prima. Era una calda giornata di settembre, il martedì successivo al Labor Day, e questa volta spettava a lei fare la spesa per le tre amiche con cui divideva l’appartamento. Qualunque fosse il tempo, arrivare fino al loft era un’autentica scalata. Ci viveva da quando, a soli diciannove anni, aveva iniziato a frequentare il secondo anno della Parsons School of Design; poi, pian piano, si erano aggiunte le altre.
Faceva la stilista di scarpe per la Arthur Adams, un brand di calzature classiche e ultraconservatrici. Nulla da dire sulla qualità, naturalmente, ma, nonostante fossero ben fatte, non erano affatto estrose e soffocavano il suo senso creativo. Walter Adams credeva fermamente che le scarpe d’alta moda fossero un trend passeggero e scartava tutte le creazioni più innovative di Claire, trasformando così il suo lavoro quotidiano in una fonte di costante frustrazione. Gli affari prosperavano senza però crescere, come invece sarebbe accaduto se la giovane sognatrice avesse potuto osare di più. Walter tuttavia resisteva con tenacia a ogni proposta di cambiamento. Claire era certa che affari e profitti sarebbero migliorati se solo le avesse dato ascolto, ma il suo datore di lavoro, ormai settantaduenne, credeva unicamente nella vecchia linea di produzione e si rifiutava di cedere alla moda delle scarpe di lusso, malgrado il fervore con cui lei talvolta lo supplicava di osare.
Così, non restava che fare ciò che le era stato chiesto, pena la perdita del lavoro. Il sogno di Claire era creare una linea di scarpe sexy e di gran moda, ma purtroppo sapeva benissimo che fino a quando fosse stata alle dipendenze della Arthur Adams non c’erano speranze. Walter detestava il cambiamento e così Claire doveva rassegnarsi a creare scarpe di foggia classica. Persino i modelli senza tacco erano troppo tradizionali per lei. Walter le aveva lasciato aggiungere un tocco di moderata eccentricità solo alla collezione di sandali estivi per le clienti che si recavano in vacanza agli Hamptons, a Newport, a Rhode Island o a Palm Beach. Ripeteva come un mantra che la loro clientela era composta in prevalenza da persone benestanti, conservatrici e di una certa età, che sapevano sempre cosa aspettarsi dal brand. Sebbene Claire gli avesse più volte suggerito di rivolgere l’attenzione a un target più giovane, Walter si era sempre rifiutato di darle ascolto, preferendo mantenere le abitudini consolidate. Inutile discutere. Anno dopo anno, le creazioni si susseguivano senza sorprese, senza guizzi di fantasia. Claire viveva questo stato di fatto con profonda frustrazione e si consolava unicamente al pensiero di avere un lavoro che, da quattro anni, le permetteva di mantenersi. Prima di arrivare alla Arthur Adams aveva lavorato per una linea di scarpe graziose ma a basso costo e di scarsa qualità. Purtroppo l’azienda era fallita dopo due anni. Quella in cui attualmente era impiegata puntava tutto sul pregio dei materiali e sul design tradizionale; fin quando avesse seguito le direttive, la griffe e lo stipendio sarebbero stati al sicuro.
A ventotto anni, Claire avrebbe gradito aggiungere almeno qualche tocco di eccentricità alla linea, osare qualcosa di nuovo. Non si dava facilmente per vinta alle resistenze del suo capo e così, a ogni creazione, cercava di aggiungere quel tocco di stile che la contraddistingueva, forte anche della consapevolezza di essere stata assunta grazie alle sue solide basi di designer in grado di creare scarpe confortevoli da indossare e semplici da produrre. Le calzature erano prodotte in Italia, in una fabbrica che aveva già collaborato con il primo fondatore e che si trovava a Parabiago, in provincia di Milano. Claire vi andava tre o quattro volte all’anno per discutere della confezione dei modelli. La ditta era tra le più affidabili e rispettate d’Italia e lavorava anche per collezioni più estrose della loro. Ogni volta che si recava in quel Paese, ammirava incantata quelle creazioni fantasiose e si chiedeva se mai avrebbe avuto la possibilità di disegnare scarpe che amava, un sogno che si rifiutava con caparbietà di accantonare.