Notti tossiche. Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere - Enrico Petrilli - copertina
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Notti tossiche. Socialità, droghe e musica elettronica per resistere attraverso il piacere
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Descrizione


“Notti tossiche” esplora il potenziale politico dell’andare in discoteca attraverso una grammatica diversa da quella dell’attivismo tradizionale, concependo il clubbing come una guerriglia micropolitica votata al presente, in cui corpi e piaceri sono il punto d’appoggio del contrattacco. Per riuscirci è necessario: primo, riconoscere come la somatofobia – il rifiuto dell’immanenza della carne a favore della trascendenza del pensiero – abbia modellato la storia dell’Occidente; secondo, mettere in pratica il (contro)sapere edonico elaborato da quegli artisti, intellettuali, soggetti LGBT, femministe e queer che per primi hanno riconosciuto le potenzialità insurrezionali del piacere. Il risultato è un’immersione totalizzante in un microcosmo prodotto dall’incontro tra suoni, sguardi, sostanze ed energie per indagare la capacità del clubbing di configurarsi come spazio di resistenza alla managerializzazione del sé e all’anestetizzazione sociale del regime post-disciplinare contemporaneo.

Dettagli

29 ottobre 2020
296 p.
9788855192729

Valutazioni e recensioni

  • nicholas_levi
    Il politicismo dell’andare in discoteca

    “Ancora una volta è lecito ricordare che l’orizzonte non è più quello della rivoluzione e dell’emancipazione, siccome non c’è un soggetto o un desiderio da liberare, ma le nostre stesse soggettività sono il campo di battaglia”. Petrilli si chiede, attraverso la scrittura di questo libro, quale sia il potenziale politico dell’andare in discoteca. Ci parla di una scena micropolitica che permette un’immersione totalizzante in un nuovo orizzonte di senso - e di sensorialità - costituito anche dall’assunzione sociale di droghe. Prima di tutto, occorre scindere l’immanenza della carne dalla trascendenza del pensiero: mettendo in atto il contro-sapere edonistico sperimentato, per decadi, soprattutto da artisti, intellettuali, soggetti LGBT, femministe e persone queer, che, per primi, hanno riconosciuto la capacità insurrezionale del piacere e del godimento fisici. In un’intervista all’autore torinese, ho letto che, per diciotto mesi, ha fatto avanti e indietro tra due delle città più all’avanguardia della scena underground: Milano, dal Dude, al Fabrique e all’Amnesia; e Berlino, dal Kitkat, al Griessmehle, al Bergein. Giungendo alla conclusione che, questi, non erano solo eventi di musica elettronica, ma vere e proprie armi di godimento di massa, studiate alla perfezione per farti sentire vivo, almeno una volta nella vita. Il risultato dell’andare in discoteca è la capacità di configurarsi come spazio di resistenza alla managerializzazione del sé, soprattutto del corpo, e all’anestetizzazione sociale del regime disciplinare e post-disciplinare contemporaneo (di Focault e di Preciado): veri e propri processi di de-soggettivazione e contro-soggettivazione, entrando in un microcosmo di socialità composto da musica, sguardi, suoni, movimenti, alienazione, sostante stupefacenti. Attraverso una “fuga dalla prigione dell’identità”, come scritto da Tim Dean nel 2012, e riportato dall’autore, i clubber riescono a dissociarsi dal sé, su un dancefloor rumoroso, mosso da onde sociali, chimiche ed emotive, in grado di ricongiungerli con l’idea di bambino - o fanciullino - che vive in noi. Un libro che non pensavo avrei ritenuto così interessante.

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