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Un tubino è per sempre - Jane L. Rosen - copertina
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Descrizione


Perché a volte basta un abito per raccontare una storia. E per dare inizio a un amore.

«Divertente, saggio e pieno di umorismo, un romanzo che vi conquisterà» - Daily Mail

Natalie lavora da Bloomingdale's, ed è in preda alla tristezza da quando il suo ex ha annunciato il suo fidanzamento con un'altra. Felicia è da sempre innamorata del suo capo, e ha una sola notte per scoprire se il suo amore è corrisposto. Andie di mestiere si occupa di mariti infedeli - lavora in un'agenzia investigativa -, ma finalmente si ritrova tra le mani un caso che potrebbe farle ritornare la fiducia nell'amore. E poi c'è una giovane modella arrivata a New York dall'Alabama, un'attrice di Hollywood terrorizzata dal suo debutto a Broadway, una brillante laureata alla Brown che finge di essere un'altra sui social: per queste ragazze la vita sta per cambiare magicamente, grazie a un piccolo, nero ed elegantissimo capo di vestiario. Un tubino nero che porta eleganza, bellezza, e soprattutto, l'amore nelle loro vite, incrociandole in modi inaspettati. Perché non si è mai fuori posto, con un tubino nero. In questo delizioso e scoppiettante romanzo femminile, il capo più amato e desiderato dalle donne passa di mano, di vita in vita, in modi imprevedibili, toccando i destini di nove ragazze.
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Dettagli

2017
7 febbraio 2017
248 p., Rilegato
Nine women, one dress
9788856657241
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Indice

Le prime pagine del romanzo

In passerella
Di: Sally Ann Fennely, modella
Età: 18 anni appena compiuti


«Spillo!» I costumisti erano tutti agitatissimi.
“Spillo? Dove?” mi dissi. «Ahi!»
Ecco dove: su di me.
Era una situazione surreale. Mi avevano preso le misure almeno cinque volte, al casting. E francamente avevo pensato che peggio di quel casting non ci sarebbe stato nulla: in piedi per ore in mezzo ad altre cinquanta modelle in biancheria nera, tutte desiderose di emergere, tutte a sognare cheeseburger.
Riuscii a buttare fuori le prime parole della giornata: «Mi sta largo. Forse dovreste darlo a una più robusta di me».
«Più robuste di te non ce ne sono» borbottò il costumista dallo spillo facile.
Mi guardai intorno: aveva ragione. La settimana prima per tutti ero magrissima, la ragazza più magra del Sud; mi chiamavano “fagiolino” e mi chiedevano se quando facevo la doccia il getto dell’acqua riuscisse a trovarmi, striminzita com’ero. Ora invece ero “quella robusta”.
«Preparatevi, tutte in fila!» urlò il costumista.
Ripetei il mio mantra: respira, respira; prima un piede, poi l’altro. Respira, respira. Una modella dietro di me parlò con il più forte accento di New York che avessi mai sentito e riuscì a deconcentrarmi.
«Mi sa che ce l’hai tu il vestito» disse. Sembrava più un avvertimento che un’affermazione.
«Che vestito?» Non capivo di cosa stesse parlando. Facevo fatica anche solo a respirare. Ormai la passerella era vicina.
«Ogni anno c’è un vestito» mi spiegò. «Sono quelli là, in prima fila, a decidere qual è. Li vedi?» Indicò un punto in cui si incontravano due grosse tende. Nel momento in cui si aprirono, lanciai una rapida occhiata alla folla. Avrei preferito non farlo.
«Appena arriva l’autunno» proseguì «quelli lì piazzano il vestito sulla copertina delle riviste, sui red carpet e nelle vetrine dei negozi. E quasi sempre si tratta di un abitino nero proprio come il tuo.»
La sua voce nasale riusciva quasi a oscurare la sua bellezza. Era un po’ come le star del muto di cui mi parlava sempre mia nonna, quelle che furono spazzate via all’avvento del sonoro. Mi sembrava che arrivasse da un altro pianeta. Probabilmente se le avessi parlato con il mio naturale accento del Sud le avrei fatto la stessa impressione. Era proprio questo il motivo per cui da quando ero arrivata a New York avevo quasi smesso di parlare. Solo frasi brevi e pronunciate con grande attenzione. Se parlavo poco riuscivo a camuffare bene il mio accento, ma non era per niente facile. E dovevo triplicare la velocità con cui mi esprimevo normalmente, altrimenti i miei interlocutori cominciavano a guardarmi temendo che non sarei mai arrivata in fondo ai miei discorsi, a meno di non spremermi le parole di bocca a forza come si strizza un tappeto bagnato. E in tutto ciò il ritmo dei pensieri doveva adattarsi a quella nuova velocità, un’altra cosa difficilissima. Era chiaro che loro non capivano me quanto io non capivo loro. Una situazione di parità, si potrebbe dire. Ma non funziona così. Non a New York.
Non sapevo parlare come una newyorkese e, se è per questo, non sapevo nemmeno camminare come una newyorkese. Il giorno del mio arrivo in città avevo commesso l’errore di fermarmi mentre passeggiavo sul marciapiede per osservare un palazzo e... bum! un tizio era venuto a sbattermi addosso, gridando «Ehi, sei impazzita?», come se avessi inchiodato in mezzo all’autostrada. Mi ero immaginata l’effetto domino di una città intera che crollava su se stessa per colpa mia.
Il giorno dopo pioveva. Era già abbastanza difficile andare in giro all’asciutto, figuriamoci durante un nubifragio. Ero così intimidita dagli indigeni che schivavano le pozzanghere e alzavano e abbassavano l’ombrello in perfetta sincronia che non ero riuscita nemmeno a oltrepassare l’ingresso del mio palazzo. Era come se tutti tranne me avessero imparato a memoria la coreografia della giornata. Ero rimasta al coperto finché non era tornato il sole.
La ragazza con la voce strana continuava a parlare del vestito. C’era ancora una decina di modelle tra noi e la passerella.
«Oppure il vestito potrebbe essere quello che ha indossato ieri la mia amica Adeline a una sfilata. Mi ha detto che quando è arrivata in fondo alla passerella i flash sono impazziti. Spera tanto che il vestito sia il suo. Mi piacerebbe essere il tipo di amica capace di essere felice per lei, ma sinceramente non sopporterei di vederla sulla copertina di “Women’s Wear Daily”. Il vestito finisce sempre su quella copertina e da lì cominciano tutti a chiedersi chi è che indossa cosa, eccetera. Il vestito diventa famoso, e magari lo diventa anche la modella che lo porta. Ho sentito che quella che ce l’aveva due anni fa ha avuto una parte in un film di Woody Allen. Anche lei era un volto nuovo.
L’occasione di essere la novità del momento ce l’hai una volta sola. Il vestito in genere lo danno al volto nuovo che vogliono promuovere, oppure a un nome famoso. E adesso, grazie a Woody Allen, il volto nuovo di due anni fa è già un nome famoso. Tu pensi che sia un pedofilo? Secondo me, no.»
Non aveva problemi a respirare, lei; mentre io cercavo di non soffocare per l’ansia. Adesso tra noi due e la passerella c’erano solo otto ragazze, e lei non la smetteva di parlare. «Mi hanno raccontato delle cose che avrei preferito non sapere. Tipo, la scorsa settimana mi hanno detto che le fettine di limone che ti mettono nell’acqua sono potenzialmente mortali. Sono piene di germi, anche cacca... Me l’ha detto una, è tutta colpa dei camerieri che non si lavano le mani. Pensa che la fettina di limone nell’acqua è la cosa più simile a un dolce che io abbia toccato negli ultimi tre anni. Ci mancava anche questa. Vorrei non aver mai sentito niente né sui limoni, né su Woody Allen.»
“Un limone” pensai. Quelle ragazze per dessert al massimo si accendevano una sigaretta. Erano tutte uguali, delle gocce d’acqua. Camminavano tutte allo stesso modo, leggere, eteree. Già le vedevo a fluttuare sulla passerella, mentre io di sicuro avrei avuto l’andatura incerta di una bimbetta alle prese con un paio di stivali pesanti. E parlavano anche allo stesso modo. Aggiungevano alle frasi parole che per me non avevano alcun senso, tipo seriamente, letteralmente e sinceramente. Sinceramente qui e sinceramente là. Come se le altre cose che dicevano fossero bugie. E quasi tutti i loro racconti cominciavano con «Non giudicarmi, ma...». Una frase che usavano come la carta “esci gratis di prigione” del Monopoli. «Non giudicarmi, ma sono andata a letto col tuo ragazzo», oppure «Non giudicarmi, ma ieri sera ho mangiato un’intera torta alle noci». Sinceramente, il secondo esempio non sta in piedi. Seriamente, è una cosa letteralmente contagiosa.
Mancavano sei ragazze, e poi toccava a me. Mi sembrava di non ricordarmi più neanche come ero arrivata fin lì. Be’, non proprio. Ero arrivata dall’Alabama con un autobus Greyhound. Se nasci con un viso come il mio e delle gambe come le mie, hai la strada segnata. A scuola andavo bene, ma non era importante. Quando io e mia sorella Carly, che ha qualche anno meno di me, portavamo a casa la pagella, mia madre studiava con attenzione la sua e degnava la mia a malapena di uno sguardo.
Mia sorella è piccoletta, come tutti i parenti dal lato della mamma. Si è sviluppata presto, e così era la più alta di tutte alle elementari, ma la più bassa alle superiori. Non è un genio, ma è sicuramente intelligente. Non più di me, comunque. Però nostra madre i miei voti quasi non li guardava. «Con due gambe così» diceva «ti basta trovare un riccone e accalappiarlo per bene. Carly invece deve imparare a cavarsela da sola.» È stato più o meno in quel periodo che ho deciso di non ribellarmi più a questi discorsi.
Non si tratta solo delle gambe. È tutto l’insieme, il viso, l’incarnato, i capelli: il pacchetto completo, insomma. Possiedo quel tipo di bellezza che la gente si ferma a fissare come si fa con un quadro. Un quadro molto alto. Una donna perfetta. All’esterno, ovviamente. Perché dentro ero invidiosissima di Carly. Lei apriva bocca, a qualcuno piaceva, ad altri no; a me bastava entrare in una stanza per piacere a tutti. Ma non c’era mai nessuno che volesse ascoltare una parola di quello che avevo da dire. Mi sentivo così sola che alla fine ero partita per New York, dove avrei potuto mettermi in fila con altri esemplari perfetti come me ed essere una qualsiasi. Una bella sensazione. Che adesso si era trasformata in terrore. Mancavano solo quattro ragazze, tutte pacchetti completi come me. Tre ragazze. Premetti le mani contro i fianchi perché smettessero di tremare.
La voce nasale della ragazza interruppe per un attimo il mio stato di trance. «E non capita solo con i limoni! Sai quelle caramelle sui banconi dei negozi, quelle che tengono vicino alla cassa? Le hanno analizzate e...»
Sperai che il vestito non fosse quello che indossavo io. Era troppo semplice... Il vestito doveva essere spettacolare e chiassoso, come la ragazza che mi stava perforando i timpani, mentre il mio era silenzioso. Non che di moda ci capissi qualcosa, sapevo soltanto quello che avevo imparato dalle riviste che sfogliavo dall’estetista di Batesville, dove nostra madre portava me e mia sorella. In realtà, era così che ero arrivata a New York. Su uno di quei giornali c’era un articolo: «Hai quello che serve per diventare una modella?». Avevo letto l’elenco: altezza, tra 178 e 185 centimetri. Ce l’ho. Seno, 78-86. Ce l’ho. Vita 56-60. Ce l’ho. Fianchi 78-88. Ce l’ho. Mi avevano preso le misure direttamente nel salone. Nel tempo di due passate di smalto color ciliegia il mio destino era stato deciso. Tanto in famiglia non c’erano abbastanza soldi per mandarci tutte e due al college, e Carly era “quella intelligente”.
«Vai!» E con una spintarella me n’ero andata davvero. Come buttarsi con il paracadute. Non che di paracadutismo ci capissi qualcosa, sia chiaro.
Appena misi piede sulla passerella i fotografi impazzirono, proprio come aveva detto quella ragazza. Rischiai di svenire davanti a tutti. Sinceramente, letteralmente e seriamente.

Conosci l'autore

Jane L. Rosen

Vive a New York e a Fire Island con il marito e tre figlie. È scrittrice freelance e collabora all'Huffington Post. Ha autopubblicato un romanzo per ragazzi, The Thread, e lavorato nel cinema e nella televisione. Tra le altre cose, ha co-fondato It's All Gravy, una app e sito web di articoli da regalo.

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