Indice
Le prime pagine del romanzo
Quel Venerdì di Dolore procedeva con la consueta normalità. Madrid si preparava a vivere i fasti della Settimana Santa. Nell’aria cominciava a diffondersi un aroma d’incenso e di cera, di minestra e di torrijas, le dolci fette di pane fritto profumate alla cannella.
Le donne percorrevano le strade vestite a lutto, con la loro mantilla di pizzo nero, il rosario e il messale stretti al petto. Andavano infervorate a riempire le chiese, incedendo rapide a capo chino, pronte a intonare quel mormorio cantilenante che ricordava il ronzio di uno sciame di vespe: «Secondomisterodoloroso. LaflagellazionediGesùlegatoallacolonna. Padrenostrocheseineicieli...».
Era passato più di un mese dalla scomparsa di doña Fermina. Camilo Bonilla Carrascosa aveva presentato al giudice il testamento olografo per l’autenticazione, passaggio necessario dato che la donna non si era rivolta a un notaio per dargli valore legale.
Le ultime volontà di doña Fermina, scritte di suo pugno tre giorni prima di morire, erano sulla bocca di tutto il vicinato, nonostante la cautela e la discrezione dell’erede. Che avesse ceduto l’usufrutto della casa alla famiglia Montejano Ribas, lasciando al figlio la nuda proprietà, era a dir poco sbalorditivo. Si rumoreggiava anche sull’imminente partenza per l’estero di Camilo Bonilla e sulla grande quantità di denaro che la madre gli aveva lasciato grazie ai ricavi del mercato nero, una fortuna mai esibita e messa al sicuro in due conti al Banco Español de Crédito. Sulla faccenda si era scatenata una violenta bufera di critiche e pettegolezzi. I più meschini e crudeli erano stati proprio quelli dei suoi vicini, che non riuscivano a spiegarsi, o meglio, non volevano spiegarsi, perché mai l’appartamento fosse stato ceduto in quel modo. Nemmeno la Quaresima servì a zittire le maldicenze, destinate a essere tutte rigurgitate nelle orecchie di don Próculo, confessate non tanto come peccati ma per il desiderio di esprimere la propria indignazione. Il sacerdote ascoltava attento, alzando gli occhi al cielo e chiedendo all’Altissimo di dargli la pazienza per non fare quel che avrebbe voluto: cacciare via a calci quei bigotti che con il loro comportamento esecrabile si erano già guadagnati un posto assicurato all’inferno. Le cose non sarebbero state così semplici come aveva immaginato la povera doña Fermina. Quando Rafael Figueroa lesse il testamento olografo disse all’erede che doveva recarsi subito in tribunale. Inoltre occorreva che presentasse al più presto il certificato di morte di suo fratello, in modo da escludere eventuali pretese da parte di eredi legittimi.
I Figueroa erano tutti seduti a tavola per la colazione, a base di torrijas e caffellatte. Doña Virtudes e Virtuditas erano appena rientrate dalla messa delle nove a Santa Cruz. Julita aveva deciso di andare con Elena e con sua madre alla messa solenne celebrata alle undici. Volevano ascoltare il sermone di don Idelfonso de Pedro.