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Anno edizione: 2017
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Se c'è qualcosa che amo più dei romanzi di Dostoevskij sono gli scritti di metaletteratura, le sue lettere e i suoi diari intimi, da cui emerge pienamente tutto il complesso di valori dell'autore russo e il suo pensiero sul fare letteratura. Voto 5 stelle, non potendone dare 10. L'ho divorato in un pomeriggio.
La corrispondenza di Dostoevskij è ricca di spunti e interessi, com'è facile immaginare. Vi si trova il racconto di prima mano della condanna-farsa subita per volere dello zar: prima a Dostoevskij, insieme ad altri, fu letta la condanna a morte; poco dopo, al momento dell'esecuzione, quando i primi tre condannati erano già al muro in attesa dello sparo fatale, fu letta loro la vera sentenza, cioè lavori forzati. Due sono i fuochi che ardono impetuosi in queste Lettere sulla creatività. Il primo fuoco acceso da Dostoevskij consiste nella denuncia dell'abbandono dell'ideale cristiano prima da parte dell'Europa, poi da parte della Russia. Per Dostoevskij la sventura dell'Europa è l'aver perduto Cristo e poi aver deciso di poter fare a meno di Cristo. Basta vedere il tentativo di concretizzare i fondamenti morali del positivismo nella Comune di Parigi, che, nota l'autore de I demoni, è servito solo a smarrirsi “dietro pii desideri e ideali”. Il secondo fuoco, strettamente collegato al primo, che dà vita e calore a queste Lettere sulla creatività sta nella difesa dell'idea di popolo russo. O meglio, dell'ideale di popolo russo. Un punto che lo accomuna a Tolstoj. In conclusione, da una parte Dostoevskij è indubbiamente imbarazzante quando denigra gli ebrei e quando propone il suo – bislacco – panslavismo universale, per cui l’uomo russo sarebbe il rappresentante più appropriato di umanità, dall'altra persino da questi argomenti che oggi è fin troppo semplice definire deliranti emerge qualcosa di buono. Dostoevskij stigmatizza gli ebrei in quanto impiegherebbero (tutti quanti?! verrebbe da chiedergli) il mero calcolo anziché il cuore, ma suo intento profondo è quello di colpire dei rappresentanti di una umanità disumanizzata e calcolante. La slavofilia dell’autore russo, invece, per cui l'uomo russo è il prototipo positivo di umanità in quanto ancora capace di amore, al contrario degli europei ormai schiavi della razionalità calcolante (tipica anche degli ebrei) è, a ben guardare, l’esito deviato della sua tendenza ad un universalismo umanitario di stampo quasi religioso. Un universalismo il cui principio supremo, trascendente infine persino i concetti politici o filosofici, è nulla più dell'amore. Banale? Più probabile che sia banale come, in maniera grossolana, sto descrivendo il pensiero di Dostoevskij. Valwe la pena di leggerlo, sempre.
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