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Silencer - Andy McNab - copertina
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Silencer

Descrizione


Un maestro dell'azione con oltre 700.000 copie vendute in Italia.

«Il miglior resoconto mai scritto sulle forze speciali in azione.» - Sunday Times

«Uno degli esempi più straordinari del coraggio umano nelle guerre moderne.» - The Times

1993: Sotto copertura, Nick Stone e la sua squadra di sorveglianza speciale vivono da alcune settimane nel Costa Rica, in un’azione che li porta nella giungla e tra le strade della città. La loro missione è localizzare il boss del più letale cartello della droga ed eliminarlo senza indugio. Finalmente il momento di colpire è arrivato. Per controllare che l’operazione sia andata a buon fine, però, Nick dovrà rivelare il suo volto. È un rischio che è disposto a correre, ma le conseguenze saranno letali. 2011: Nick vive a Mosca, lontano da tutto, accanto ad Anna e al bimbo nato prematuro. Ma quando le condizioni di suo figlio si aggravano e il dottore che dovrebbe salvargli la vita viene minacciato, Nick si ritrova nuovamente sul campo di battaglia. Le forze scatenate contro di lui hanno armi, elicotteri, eserciti privati e tengono in pugno una popolazione terrorizzata. Nick Stone è determinato a proteggere la donna e il bambino che ora significano per lui più della sua stessa vita.
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Dettagli

2
2017
23 febbraio 2017
460 p., Rilegato
9788830446984
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Indice

Le prime pagine del libro

Jaco, Costa Rica
29 novembre 1993
ore 07.37


Sotto l’otturatore del Mauser erano ancora impresse l’aquila nazista e la svastica. Il mirino ricordava il palo appuntito di uno steccato. La maggior parte dei principianti mirava all’intersezione con una sottile linea orizzontale, più o meno a due terzi verso l’alto, ma quella linea serviva solo per controllare l’inclinazione dell’arma. Il punto giusto era esattamente all’estremità superiore.
Guardai nel cannocchiale Zeiss con ingrandimento x4, un modello base risalente alla Seconda guerra mondiale.
L’edificio dove si trovava il nostro bersaglio, nella valle sottostante, era poco più di una macchia. La pioggia torrenziale mi pungeva la faccia e picchiettava sull’obiettivo; la passata che diedi con il pollice non fece che peggiorare le cose.
«Un colpo, un centro... sei ancora così sicuro di farcela, hombre?»
Annuii, in risposta a quella specie di parodia di film western in bianco e nero che mi stava rifilando fin dal primo momento in cui ci eravamo conosciuti ma, in realtà, insomma, non ero poi così sicuro. Ero zuppo fino al midollo, ricoperto di fango e terriccio, e divorato da ogni singolo insetto del Centro America che fosse in grado di volare, strisciare o anche solo starsene comodo in attesa che qualcuno si sedesse lì accanto.
Peggio ancora, ero nervoso. Era il mio primo incarico per il Secret Intelligence Service, i servizi segreti inglesi. Magari era il solito schifo con un capo diverso, ma il mio futuro con loro poteva dipendere da quell’unico tiro, e l’idiota che mi ero dovuto trascinare dietro era una vera pietra al collo.
Scostai la testa dal fucile. Dino era quasi interamente sommerso dal fango; quel che restava di lui era ricoperto da grossi grumi di foresta pluviale. Teneva gli occhi appiccicati su un aggeggio che sembrava un binocolo sotto steroidi. Per la centesima volta da quando eravamo arrivati lì premette un pulsante sull’involucro e sparò un raggio a infrarossi invisibile, nel caso negli ultimi minuti il capanno fosse scivolato più giù lungo la vallata.
«Quattrocentoquarantasette metri.»
«Lo so, Dino, lo so.»
La distanza di tiro veniva regolata tramite un quadrante sulla parte superiore dell’intelaiatura. Io l’avevo fissata a quattrocentocinquanta.
Per quel lavoro Dino si era rasato la testa quasi a zero e aveva tinto di biondo quel che era rimasto. A guardarlo, si poteva credere che il Mauser fosse appartenuto a suo nonno. E forse era così. Il principio di condividere solo le informazioni strettamente necessarie non sembrava essere una priorità nelle procedure operative della DEA: l’agente Zavagno mi aveva già raccontato delle sue origini ben più di quanto avessi bisogno di sapere.
I suoi nonni messicani avevano attraversato a nuoto il Rio Grande insieme ai figli, dopo aver guardato troppe puntate di Dallas e Dynasty. Non avevano mai avuto occasione di cenare con JR e Joan Collins, ma il piccolo Dino aveva incominciato a vivere il Sogno Americano nella baracca accanto alla loro, in una qualche cittadina di bifolchi poco oltre il confine.
Io non ero un linguista, ma a sentirlo più che messicano mi sembrava italiano, e nel DNA di Dino c’era decisamente un pizzico di Europa. Al termine della Seconda guerra mondiale centinaia di gerarchi mussoliniani si erano uniti al flusso di nazisti nell’America Centrale e Meridionale, cosa che con ogni probabilità poteva in qualche misura spiegare il suo taglio di capelli tipo I ragazzi venuti dal Brasile.
Dino doveva avere all’incirca venticinque anni, ma anche se aveva un fisico da rugbista mi era parso di dovermelo trascinare per ogni centimetro dei dodici chilometri che ci separavano dalla città. Non è che fosse dispiaciuto di trovarsi lì, anzi, ero certo che la sua passione e il suo entusiasmo soddisfacessero tutti i requisiti del Dipartimento risorse umane della DEA di Washington. Ma era abituato a operare nel New Mexico, la terra dei tacos e delle tempeste di polvere. Non aveva mai passato del tempo nella foresta pluviale. Non aveva esperienza sul campo, a dirla tutta, e non aveva idea di come regolarsi.
E non era quello il suo solo problema. Si era ficcato in testa che agli inglesi piacesse il tè, e insisteva con il Lipton, quello in bustina nei pacchetti gialli.
Oltretutto, quel buco di cittadina in cui ci eravamo fermati per un po’ pullulava di hippies, che si erano trasferiti lì fin dai tempi della Summer of Love, e di torme di giovani surfer, che erano arrivati negli ultimi anni a beccare qualche onda e si erano anche loro scordati di andarsene. Le ragazze erano abbronzate, avevano l’aria di essere in forma e pronte a divertirsi. Dino aveva il cazzo al posto del cervello e si era mostrato assai riluttante a fare armi e bagagli prima di ricevere almeno un invito.
Avevamo impiegato dieci interminabili ore, fradici di sudore e divorati dai moscerini, per localizzare il più recente nascondiglio di Jesús Orjuela. Altre tre ci erano servite per strisciare, non visti, fino alla nostra postazione di tiro, su un’altura a sud. Da quel momento eravamo rimasti lì, sotto un acquazzone tropicale, mentre il Lupo – come all’epoca amava farsi chiamare, – se ne stava bello tranquillo a bere caffè, all’asciutto. Una particolarità dei lupi è che sono audaci quando sono in branco, ma iperprudenti quando si ritrovano isolati. Questo lupo sapeva bene che starsene nascosto era la sua arma migliore.
Il bungalow in legno massiccio che vedevo attraverso il mirino del Mauser era tutt’altra cosa rispetto agli appartamenti di Mayfair, agli chalet svizzeri e alle case sulla spiaggia di Malibu che costituivano il resto delle sue proprietà. Era posato su palafitte di tronchi e aveva un tetto di lamiera che aggettava su un porticato. A ogni spiovente c’era una finestra con le imposte e sul davanti una porta che non chiudeva bene, tra altre due finestre con le imposte, ma almeno chi si trovava all’interno era protetto.
E avvolto nell’anonimato. L’unico indizio rivelatore era la massiccia Ford F-150, decisamente americana, parcheggiata all’esterno. Sarebbe stata ricoperta di fango fino agli assali, se non avesse potuto vantare quel genere di sospensioni rinforzate che un bifolco avrebbe mostrato con orgoglio al raduno dei mostri a quattro ruote della sua zona.
Un recinto di filo spinato arrugginito cingeva grosso modo mezzo acro di erbacce che si stendevano fino al bordo della foresta. Un ruscello ingrossato, largo quanto la strada, scorreva lungo la vallata, più o meno un centinaio di metri più in là; sulle sue sponde erano disseminate altre capanne, ognuna con il suo bell’angolino di fango destinato al divertimento dei maiali. Cinque o sei coccodrilli poltrivano con le mascelle spalancate, come se stessero giocando a catturare le gocce di pioggia o fossero in attesa di un po’ di carne da divorare. Avevano un’aria rilassata come quella del Paese che chiamavano casa.
I generosi sussidi statali avevano difeso quel posto dall’incubo delle guerre civili e dalle insurrezioni appoggiate dagli Stati Uniti che negli anni Settanta e Ottanta avevano avvelenato la maggior parte del Centro America. Il Costa Rica non possedeva neanche un suo esercito.
I suoi unici interessi erano la crescita del turismo e la difesa della foresta pluviale. Una quarantina di metri al di sopra delle nostre teste torreggiavano alberi da legno duro, tenuti in piedi da contrafforti artificiali alti un paio di metri, come gli stabilizzatori sul supporto di un albero di Natale.
Mi spiaceva che un po’ della merda che risaliva da sud rischiasse di appiccicarsi a quel paradiso terrestre.
Mi concentrai di nuovo sulla visuale appannata di cui godevo attraverso il mirino. Tenevo sotto tiro la porta e le finestre. Se il Lupo avesse messo il muso fuori, l’avrei avuto in pugno. Un colpo azzeccato e se ne sarebbe rimasto bello stecchito sul pavimento della veranda, vittima di un agguato vecchio stile a opera di un cartello della droga rivale, con sede al di là dell’orizzonte.

Conosci l'autore

Andy McNab

Pseudonimo dietro il quale l’autore si nasconde per motivi di sicurezza, è entrato nel SAS nel 1984 e da allora ha partecipato a operazioni in ogni parte del mondo, fino al 1993, quando ha cominciato a scrivere, dapprima raccontando le sue esperienze di soldato in Pattuglia Bravo Two Zero e Azione immediata, poi dedicandosi alla narrativa di azione. Con Controllo a distanza, suo primo romanzo e grande successo internazionale, ha regalato agli appassionati del genere un nuovo eroe: Nick Stone. Alla serie di Nick Stone appartengono anche: Crisi quattro, Fuoco di copertura, Bersaglio in movimento, Sotto tiro, Nome in codice: Dark Winter, Buio profondo, Lo sterminatore, Contraccolpo, Fuoco incrociato, Forza bruta, Ferita letale, Ora zero e Punto di contatto. Longanesi ha pubblicato...

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