Gli aborigeni australiani. Seimila anni di civiltà della pietra - Adolphus Peter Elkin - copertina
Gli aborigeni australiani. Seimila anni di civiltà della pietra - Adolphus Peter Elkin - copertina
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Gli aborigeni australiani. Seimila anni di civiltà della pietra
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Descrizione


La scoperta e la successiva colonizzazione dell'Australia da parte degli inglesi ebbe come conseguenza la crisi e in gran parte la distruzione di una delle culture più antiche e millenarie del pianeta. Gli aborigeni giunti dall'Asia sud-orientale circa seimila anni fa, popolarono stabilmente l'Australia senza grandi cambiamenti, fino allo scontro con la civiltà europea alla fine del Settecento. Sebbene fosse mosso inizialmente da intenti di evangelizzazione e di assimilazione, Elkin finì con l'appassionarsi alle civiltà aborigene, ai loro usi e costumi, fino a raccoglierne e a salvaguardarne l'importante patrimonio culturale e religioso. Prefazione di Vinigi Grottanelli.

Dettagli

XXVII-359 p., ill. , Brossura
9788885711150

Valutazioni e recensioni

  • Questo volume contiene una autorevole documentazione di come nell'uomo sia istintivo il "coltivare", argomento analizzato in dettaglio in un mio articolo nel paragrafo che riporto: L’istinto innato del coltivare Una distinzione usuale nei trattati di antropologia, etno-paletnologia, preistoria, è quella tra popoli, genti raccoglitrici e popoli coltivatori, in realtà ciò in modo grossolano corrisponde al vero, ma stando a quanto mi scriveva in una sua lettera del 1959 il dr. A. P. Elkin, autore di un ottimo trattato sugli aborigeni australiani generalmente considerati “raccoglitori”, c’è nella generalità degli esseri umani, nei rapporti con la vegetazione, una innata tendenza a conservarla in vita, a proteggerla, svilupparla, difenderla dai parassiti, tendenza spesso cancellata dalle contingenze, dalle esigenze di raccolta per il proprio nutrimento. Vale a dire il processo del coltivare è nell’uomo istintivo come del resto anche quello dell’allevare. Sono sempre le contingenze, l’attività quotidiana che rendono l’uomo, in modo meglio definito, coltivatore o allevatore, od anche il suo formarsi allo stadio parassitario del raccoglitore. Elkin mi faceva notare infatti che gli aborigeni australiani quando raccolgono tuberi d’igname ne trattano con cura gli eventuali frammenti per tentare di conservare in vita la pianta madre originaria. Anche se il fine può essere quello della futura raccolta dei nuovi tuberi che deriveranno dai frammenti, ciò ha pure il significato più globale di conservazione della pianta madre. Incendiare è = semanticamente a coltivare/nutrirsi? Alcune specie di piante, le così dette “pirofite”, (ad es. il pino di Aleppo), si sono talmente adattate ai periodici incendi che non periscono, come spesso avviene per la generalità delle piante, dopo una bruciacchiatura anche se solo alquanto parziale. Bisogna premettere che laddove gli incendi dei boschi sono frequenti ma fugaci, talora di origine spontanea, la flora è in prevalenza costituita da queste pirofite. Il fuoco in questo caso non carbonizza buona parte della vegetazione. La più parte di questa rimane viva anche se, per così dire, è stata abbrustolita. J. Harlan, il sommo paleo-agronomo americano, deceduto non molto tempo fa, ha spiegato che il fuoco nei boschi e nelle boscaglie del Vicino Oriente è una specie di “aratro chimico” naturale che, eliminando gli arbusti, allarga gli spazi erbosi tra gli alberi. Poiché la vegetazione erbacea in quell’area “disturbata” da incendi periodici fugaci è costituita da cereali, ciò significa estenderne la presenza e con essa la potenziale disponibilità di cibo per gli esseri umani eventualmente ivi residenti. Inoltre, ha aggiunto, che poiché tali fiammate fugaci bruciano i rametti più sottili limitandosi ad abbrustolire le cortecce di alberi e alberelli, (in genere si tratta infatti di piante “pirofite”), queste poi reagiscono producendo numerosi teneri germogli. In tal modo si sviluppa una abbondante tenera vegetazione, anch’essa alla fine alimento per uomini e animali. Ne deriva che in quelle condizioni incendiare significa in concreto coltivare, produrre cibo. Harlan ha documentato come nel Vicino Oriente gli incendi ritenuti “spontanei” sono frequentissimi nella stagione di maturazione dei cereali (frumento e orzo) che ivi crescono selvatici, sottolineando che in quell’area questo fatto – ha scritto – è cronico, si ripete da centinaia e centinaia di migliaia di anni. Una situazione analoga è stata descritta anche da James Cook, il noto scopritore dell’Australia: quando per la prima volta stava per sbarcarvi, l’ha trovata tutta avvolta nel fumo di numerosi fuochi. Gli indigeni, come capì successivamente, usavano incendiare le boscaglie di eucalipti per estendere le aree erbose e così predisporre un abbondante pascolo per le mandrie di canguri. In tal modo le incrementavano e le rendevano più disponibili per la cattura di questi animali. Cioè in sostanza praticavano una forma rudimentale di allevamento. Quello che è necessario sottolineare è il fatto che l’incendiare in questi ambiti, significa produrre cibo, in definitiva quindi nutrirsi. Questo modo di operare diventa alla fine un comportamento istintivo, che viene introiettato e programmato nell’inconscio della gente che abita in quelle aree e quindi, come ha spiegato Jung, ereditario e insopprimibile. Ciò concorre a far capire il perché della attuale presenza della piromania in particolare nelle aree di tipo mediterraneo. In alcune persone è molto tenue, come talora si può rilevare anche in se stessi: un semplice interesse per il fuoco senza vocazione incendiaria. Vivido e operativo in altre persone, i piromani. In questi diventa una tendenza istintiva, quasi invincibile a provocare l’incendio. Questo perché per loro, come si è compreso, per il loro inconscio ereditario, incendiare significa coltivare, produrre cibo. Tendenza semanticamente coltivatoria che a ben riflettere ha obiettivi alla fine analoghi a quelli che, mutatis mutandis sotto altri profili, abbiamo tutti noi a voler liberare in una boscaglia alpina un bel fiore, un Lilium bulbiferum ad esempio, od anche un bel cespo di nocciolo quando ci appaiono soffocati dalle sterpaglie. E’ questo un atto coltivatorio spontaneo, come è pure atto innato, semanticamente coltivatorio quello ereditario in determinate aree del provocare l’incendio per estendere lo spazio produttivo alimentare. Questa tendenza è quindi corrispondente a quella che costringe certe specie di formiche a coltivare istintivamente funghi, ad allevare gli afidi. Ovviamente la tendenza innata ad incendiare con il significato di coltivare si concretò soltanto quando l’Uomo, meglio l’Ominide divenne padrone del fuoco, vale a dire più di un milione di anni fa . E’ chiaro che la pratica non solo istintiva ma pienamente consapevole, agronomicamente programmata dell’incendio del bosco per realizzare un’area da coltivare, cioè l’ignicoltura, fu successiva. In conclusione, di tutto questo occorre ancora riflettere a fondo, molto a fondo sul significato dell’intero processo qui illustrato. Perché l’effetto di tutto ciò è innovatore in modo epocale. In realtà viene cancellata la distinzione tradizionale tra “raccoglitori” e “coltivatori-allevatori”. Ciò in quanto, come abbiamo qui sopra evidenziato, l’interesse operativo anche di tipo coltivatorio rilevato pur nei cosiddetti “raccoglitori” di piante alimentari li rende sostanzialmente, inevitabilmente, anche se forse solo embrionalmente, di fatto “coltivatori”, e “allevatori” e quindi cancella, almeno parzialmente, la tradizionale distinzione tra il coltivare e il raccogliere, il catturare.

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