La saga dispotica di Margaret Atwood è una delle opere più potenti e necessarie della narrativa contemporanea. Il racconto dell’ancella (scritto nel 1985) resta un capolavoro assoluto: un romanzo che inquieta, scuote, interroga. Rileggendolo oggi, nel 2025, colpisce più che mai quanto la visione della scrittrice — un regime teocratico nato nell’ex America orientale — appaia meno fantascientifica e più come un avvertimento lucido. Le derive estremiste, le pressioni sui diritti delle donne, la polarizzazione politica: basta poco per intravedere, nel nostro presente, le crepe che potrebbero trasformarsi nelle fondamenta di Gilead. La scrittura della Atwood è asciutta, precisa, tagliente. È un libro che lascia un’eco lunga, come 1984: disturbante perché terribilmente plausibile. I testamenti, scritto trentacinque anni dopo, chiude il cerchio. Non nasce per stupire, ma per rispondere alle domande che il primo volume aveva lasciato in sospeso. Atwood stessa lo rivendica nella postfazione: voleva dare un vero finale, definitivo, a personaggi rimasti sospesi per decenni. Il tono è più lineare, più rapido, meno cupo: un romanzo che scorre veloce e che offre ciò che molti lettori attendevano, un esito chiuso e finalmente rassicurante. Per chi conosce bene Il racconto dell’ancella, alcune rivelazioni risultano prevedibili — e il legame tra le due giovani protagoniste è intuibile sin dall’inizio — ma la forza della narrazione e la coerenza del mondo creato rendono il libro comunque imprescindibile. Insieme, i due romanzi formano un’unica storia magistrale: la caduta nell’incubo e la lenta risalita verso la libertà. Un’opera che continua a parlare al presente, a ricordarci quanto sia fragile tutto ciò che diamo per scontato. Due libri da leggere e, soprattutto, ricordare.
