Indice
Le prime frasi del romanzo:
Uno
La mattina del cinque marzo sono uscito da solo e di umore sospeso perché il tempo era brutto e perché avevo una strana curva nei pensieri, e il cavallo mi ha preso la mano. Non era uno dei miei: un purosangue inglese scartato alle corse di nome Duane, mille volte più instabile dei meticci tozzi di campagna con cui mi ero messo in testa di ritrovare la naturalezza equina perduta. Aveva un muso tutto narici dilatate e occhi bianchi pazzi allontanato da un collo stretto e lungo, un corpo levrettato di ossa sottili e muscoli a fior di pelle e nervi tirati come corde di chitarra elettrica; potevo sentire attraverso le gambe e il bacino e le braccia la paura e il bisogno frustrato di movimento che gli passavano dentro come una corrente, lo facevano fremere e recalcitrare ogni pochi passi. Mi tornava il suono delle parole che io e Anna ci eravamo ribattuti a proposito dell'occuparci di cavalli e di proprietari di cavalli così diversi dalle nostre intenzioni originarie: il modo istantaneo in cui eravamo scomparsi nei nostri ruoli acquisiti, l'uomo non-realistico e la donna con i piedi per terra che si fronteggiano dietro barricate di ragioni. C'era un vento cattivo di nord-ovest, ci è arrivato addosso più forte quando abbiamo girato all'antico santuario diroccato. Duane muoveva le orecchie e scartava a ogni fruscio tra i rami del bosco; e credo che sentisse le mie tensioni irrisolte come io sentivo le sue, l'alfabeto di segnali cifrati.
Siamo scesi a sbuffi e strappi di redini e colpi di tallone per il tratto ripido che dal santuario porta giù alla valle; i ferri ogni tanto scivolavano sull'asfalto che un benefattore ignorante e devastatore aveva fatto colare lungo trecento metri di strada per il matrimonio di sua figlia. Mi tenevo leggero in sella, con le punte dei piedi che appena toccavano le staffe, pronto a bilanciare una perdita improvvisa di stabilità e anche a saltare giù se Duane avesse finito per cadere su un fianco o rovesciarsi zampe all'aria. Era uno degli aspetti dell'andare a cavallo che mi avevano affascinato fin dall'inizio: il dover stare in guardia ma non rigidi di tensione, attenti ai minimi segnali eppure parte di un equilibrio molto più ampio e mobile, dove nessun gesto può garantire effetti permanenti.
Quando siamo arrivati in piano abbiamo passato il cancello a gabbia per il bestiame e preso al trotto nervoso per la strada sterrata che attraversa la grande distesa di prati a onde. L'erba rasa dell'inverno aveva ricominciato a crescere da poco; i cavalli da carne dai posteriori deboli e le mucche bianche dalle grandi corna brucavano con accanimento intermittente, infastiditi anche loro dal vento. A ogni folata cartacce e sacchetti di plastica dei picnic della domenica prendevano il volo e facevano scartare Duane, ma per il resto era più o meno lo stesso paesaggio che mi aveva colpito molti anni prima, quando ero rimasto stupefatto all'idea di una porzione così estesa di valli e colline conservata quasi intatta a trenta chilometri dalla città.
Abbiamo passato anche il secondo cancello tra nuove impuntature e scantonamenti e abbiamo ripreso al trotto per i prati in pendenza, oltre il recinto del toro alla base della grande quercia. Pensavo a tutte le volte che avevo fatto in andata e ritorno lo stesso percorso da due ore, con i clienti inesperti aggrappati alle redini in fila indiana e i clienti che si consideravano esperti tutti presi nei loro giochi di posture. Mi venivano in mente le domande ricorrenti man mano che il paesaggio ci si apriva intorno, le risposte ricorrenti che davo: il senso di padronanza e di libertà, la soddisfazione quasi rabbiosa di aver trovato alla fine un lavoro e una vita che non mi facevano sentire chiuso in una gabbia o in una scatola arredata. Cercavo di richiamare queste sensazioni per sciogliermi e viaggiarci dentro, ma non ci riuscivo; non sapevo se per colpa dell'andatura di Duane o per colpa del vento del vento, per colpa delle grandi nuvole grigie che correvano nel cielo sopra le nostre teste.