Due manigoldi, amici, in un raptus frenetico uccidono un guardiacaccia. Subito pensano di darsi alla macchia e fuggire dove nessuno li conosca e poter, forse, ricominciare una nuova vita. Ma quel gesto di violenza ha smosso i loro animi, il potere di vita e di morte che si sono conferiti li esalta: laddove passano lasciano un'impronta di male del tutto estranea a quei luoghi tranquilli. Rubano, tentano uno stupro (episodio narrato con fortissimo pathos dall'autore) e infine uccidono - senza neppure esserne consapevoli per via dell'ubriachezza - un gendarme che li sorprende. Questo modus operandi non fa che alimentare il loro delirio di onnipotenza, ma non manca di insinuare nei loro animi il germe che prima o poi la pagheranno, che quello che hanno fatto è davvero troppo. E saranno infine traditi da quella che era sembrata una piccolezza: saranno accerchiati e, dopo aver seminato, ancora morte, troveranno il conto ad attenderli. L'incipit bucolico si tramuta subito in un crescendo di tensione, che non è stemperata neppure dai momenti "lieti" che i due trascorrono nella foresta. Le attente descrizioni sinestetiche con suoni e colori ci proiettano proprio lì in quei boschi, ci fanno respirare la stessa tensione dei due banditi e sin da subito ci rendiamo conto che le cose non potranno che finire male. Ogni volta che la situazione sembra aver raggiunto un equilibrio, quando sembra che la violenza possa fermarsi lì, i due sono assaliti dalla loro follia e dal pensiero di poter fare di più, di potersela sempre cavare, per arrivare infine alla conclusione diametralmente opposta. Con espediente non ignoto alla letteratura dell'Est Europa, Čapek fratello volutamente sfuma i confini tra sogno e realtà, ma sa tenere alta l'attenzione del lettore per tutto il racconto. Un plauso va alla casa editrice che offre un piccolo catalogo di testi, ma molto ben selezionati e di difficile, se non impossibile, reperimento in lingua italiana.
