Si buttano giù, nel vuoto, e sorridono… Non si tolgono la vita, ma escono dalla vita… Perché lo fanno? La domanda serpeggia lungo tutte le pagine de “La Penultima fine del mondo”, edita per i tipi Nottetempo: un tascabile, in realtà, dalla scrittura leggera, ma non dalla facile lettura, che lascia in gola e sull’anima gli interrogativi di sempre. Adoro l’autrice sin dai suoi esordi per i suoi ritratti poetici della realtà, giornalisticamente ritratta, esercizio cui la Seminara è stata “costretta” per moltissimi anni della sua carriera: muovendo da premesse proprie del mondo giornalistico, è riuscita a contaminare le pagine de “La Penultima” con l’ironia, graffiante e velata al contempo, utilizzata sin dal titolo, propria di chi prende sempre le distanze dai fatti. Attraverso l’uso sarcastico di “esilararti” ossimori, sineddoche, metonimie tipiche dei media, vengono fuori, infatti, sottointesi giri di parole come “vittime e morti nolenti”, “migranti estremi”, “nomadi del confine”, “esploratori dell’ombra”, “anime salve”, “diversamente vivi”! E non posso, quindi, non continuare con la prima sensazione che mi ha trasmesso il libro: un'atmosfera molto marqueziana, con un linguaggio sensuale ed abbagliante, come solo la letteratura sudamericana è in grado di partorire. Macondo è stato il mio punto di riferimento per interpretare la storia: un "tipico" topos letterario del paesino incontaminato, vergine, con il suo fiumiciattolo e il suo bosco, "infestato" ad un tratto da qualcosa di magico, talmente magico che diventa reale... e tutto si trasforma in distopia....Figlio del "Realismo magico", dunque, mi sembra questo libro, irrorato dai continui interrogativi di sempre e c'è, nonostante tutto, un’unica conclusione possibile, inattesa e felice. Un interrogativo è evidente più degli altri (e l’autrice lo scrive in corsivo): “E se fosse davvero, quella seconda vita in cui ti immergevi cantando, con l’innocenza dei bambini o l’incoscienza dei matti, più giusta e piena di questa vita meglio conosciuta?” Infiniti sono ancora i rimandi letterari, da D'Annunzio a Verdi, da Bulgakov al padre Cristoforo di manzoniana memoria, e la visione schopenhaueriana della non- vita (vedi pag. 136) con la ripetizione per ben 4 volte di dolore, che rinvia anche ad Ungaretti e ad una filosofia panistica. Sembra un gioco, alla ricerca affascinante di altri mondi, che risponde a quell’assunto della Kristeva sull’intertestualità di ogni “prodotto” letterario e artistico, in generale. Dal comico al tragico, sono tanti i registri sottesi al romanzo, che in realtà la Seminara ama, però, definire “malincomico”, in quella sorta di “riciclaggio” di parole, molto care all’autrice, la quale dispiega la sua vena artistica nel “raccontaminare”, nel “rici- creare”, cercando di donare, da pop artist com’è, nuova linfa a parole cadute in “disuso”, come un giardiniere in un vivaio secco. Impossibile, inoltre, dimenticare quelle sinestesie, sempre nuova linfa e futuro della letteratura, che il lettore accoglie come bagliori di spade (una tra tutte il "silenzio accecante" di pag. 142). E' geniale, secondo me, ancora un sorta di "andamento a spirale" , che io avverto sia nella narrazione, sia nella descrizione dei luoghi (un progressivo avviarsi verso la "cima"), una spirale che va verso la chiusura anche a livello cromatico. In maniera leggiadra l’autrice, insomma, ha inaugurato una nuova poetica, quella de "L'andare oltre la rete"! Il superamento dell’ottica che schiaccia l’uomo, frutto di interessi che sconfinano dalla letteratura per approdare all’astronomia e alla fisica quantistica, con il principio di indeterminazione di Heisemberg, con l’assunto secondo cui l’uomo abita uno dei mondi possibili. Non un finale aperto, ma tanti finali probabili… A pag. 134 è scritto: " E lo specchio rideva"... da lì ho immaginato che lo scrittore non sia in grado di ridere perché scrigno di una verità disincantata e per lui, "vivo nolente", ride solo il suo specchio..... Fulcro dell'intero romanzo è diventata, dunque, per me la frase: " Lo scrittore pensò che era bello poter salvare le persone, oltre che ucciderle." E allora mi sono chiesta: è stata, in realtà, una vera e propria finzione, creata ad hoc dal nostro scrittore che non riesce a scardinarsi dal mondo dei vivi? O appunto perché l'innominato scrittore, questo scrittore- Caronte- traghettatore, ha capacità demiurgiche è in grado di saltare "al di là" della rete e osservare tutto e tutti con lenti diverse? Bene, i miei interrogativi sono tanti... e un capolavoro è quel libro che non ne risolve neanche uno... Un'ultima annotazione? Trovo la dimensione del romanzo, in questi tempi di fretta "esistenziale", assolutamente congeniale e perfetta per adattarsi a qualsiasi tipo di lettura, anche a quella "interstiziale"!
In un piccolo paese dell'isola la gente comincia a morire, lanciandosi da balconi e scarpate: nessuno ha un motivo apparente, ma tutti un vago sorriso. I casi ormai non si contano più e la stampa internazionale si riversa nella cittadina per documentare gli eventi. Quando, nel timore di un'epidemia planetaria, si spegnerà il faro dell'attenzione, gli abitanti resteranno soli e prigionieri a sprofondare nel regno delle ombre. Non soli del tutto, però. È rimasto in paese uno scrittore di gialli per affrontare il mistero di quei suicidi felici. Un noir metafisico e visionario, la distopia di una società deperibile in questo romanzo di Elvira Seminara.
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Anno edizione:2013
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