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«È a Port Sudan che ho saputo della morte di A. I capricci della posta locale hanno fatto sì che la notizia della morte del mio amico mi giungesse molto dopo che aveva smesso di vivere. Un funzionario cencioso, sfigurato dalla lebbra, con un grosso pistolone il cui fodero era annodato alla cintura da una corda di pelo di bufalo intrecciato, mi consegnò la lettera verso sera. Sul volto senza labbra, con le orecchie a cresta di gallo, aveva stampato un ghigno perenne. Come si era procurato la lettera? Non lo so. Forse l'aveva rubata alla Morte stessa».
L'amicizia sopravvive al silenzio, scorre muta per decenni, svaporando in ricordo; poi d'improvviso si distilla in due parole scritte prima di uccidersi: «Caro amico». E basta.È una lettera sfigurata, come il poliziotto di Port Sudan che la recapita, quella che giunge nelle mani del protagonista. Transfuga da un mondo nel quale ancora si poteva essere eroi imbecilli, teneri e audaci, è fuggito a Port Sudan. Ha scelto la navigazione, come l'amico aveva scelto la letteratura (ma chissà se è vero, forse erano stati scelti, forse l'amico non è veramente morto, lui non è veramente vivo...).«Caro amico» e basta. Per cercare di capire bisogna viaggiare a ritroso; bisogna tornare in Francia, in quella Parigi lasciata tanti anni prima, quando era finita la voglia di cambiare il mondo, quando si era smarrita la facoltà di credere e far credere. Sarà ora la domestica dal viso consumato e dolce come un vecchio sapone a raccontargli il senso di quel proiettile? O quell'infermiera che gli ricorda ombre di donne africane? Di certo non la portinaia dalle braccia come murene, ancora torva di rabbia perché il fato le ha sottratto tutto il bello, lo sparo, la polizia, il medico legale, il sangue: e lei non c'era!Insomma, perché s'è ucciso? Naturalmente per amore. E come avrebbe potuto continuarla, quella lettera?
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