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Le prime frasi del romanzo
Dopo dieci anni Ivano aveva finalmente accettato l’invito del fratello.
Lorenzo si era trasferito su un’isola dei Caraibi dopo essere stato colpito da un attacco cardiaco su un volo Air France diretto a Milano, nel momento esatto in cui sorvolava il Monte Bianco.
Gli piaceva raccontarla così, gli piaceva anche usare una parola, stroncato, perché rendeva bene quello che era successo alla sua carriera di analista finanziario cresciuto nel mito di Mediobanca e di Enrico Cuccia. A cinquantacinque anni si era ritrovato con uno squarcio in mezzo al petto e un paio di by-pass impiantati nel cuore dal professor Malinverni, il cardiologo apprezzato anche negli Stati Uniti (ora al centro della sua devozione più di Adam Smith), che gli aveva consigliato di prendersela con calma e di fare una vita ordinata, perché era evidente che non avrebbe più potuto reggere lo stress della finanza.
Era la fine delle ambizioni di un tempo, la fine di ogni vecchio appetito e desiderio. Una cosa del genere cambiava qualsiasi prospettiva. Tutto quello che c’era stato prima, tutto quello che ci sarebbe stato dopo.
Alla vita ordinata Lorenzo aveva preferito l’esilio (anche questa era una parola che amava): una casa neocoloniale in un comprensorio con prati all’inglese, campi da golf, piscine e vicini per lo più italiani, a cominciare da uno degli imprenditori che negli anni ’80 lo aveva costruito, vendendone i primi lotti ai suoi amici milanesi.
Lorenzo aveva fatto a Ivano il primo invito pochi mesi dopo il suo trasferimento. Lo aveva rinnovato negli anni, nelle sporadiche telefonate di auguri, per poi sussurrarglielo mentre al cimitero di Lambrate (al Maggiore non c’erano più colombari liberi) inumavano Sofia, la donna che per quarant’anni era stata la moglie di Ivano, l’unica che avrebbe desiderato davvero passare qualche settimana all’anno sotto il sole dei Caraibi.
«Lorenzo ci rimarrà male» lo provocava Sofia non appena Ivano metteva giù il telefono, dopo aver parlato con il fratello. Ivano sapeva che a rimanerci male era soprattutto lei, attratta dal fascino elitario della meta. Una volta, mentre fissava dall’ottavo piano il grigio skyline che andava mutando e subendo impennate con l’avvicinarsi dell’Expo, era stato sul punto di dirglielo; poi, come sempre, aveva preferito rinunciare. Da quando suo fratello gli aveva prospettato la possibilità di quel viaggio, Sofia non aveva fatto che parlargli di verande sul mare, di cesti di frutta fresca lasciati sul tavolo di una camera d’albergo, di un ristorante a isole costruito su un lago illuminato da romantiche lanterne subacquee, e di molti altri esotici dettagli che trovava sulle riviste di viaggi.
Quando si sentiva delusa, Sofia non diceva mai nulla di esplicito, si limitava a mettere in ordine le cose del marito. Ivano non ritrovava più niente. Invece che nella loro custodia, gli occhiali finivano sopra i numeri di “Panorama” o tra le comunicazioni bancarie nel cassetto della scrivania; le ciabatte di pelle marrone sulla bilancia elettronica del bagno o sotto il comodino; le scarpe a prendere aria in balcone, tra il bidoncino dell’umido e l’armadio dei detersivi; il giornale, invece, scivolava misteriosamente sotto un cuscino color panna del divano.
Da quarant’anni le discussioni tra loro erano sempre le stesse: pochi ed essenziali scambi di battute.
Ivano sapeva che dicendole la verità avrebbe provocato un terremoto domestico. Aveva l’impressione che il viaggio fosse solo una scusa che nascondeva molte questioni irrisolte.
Chiedergli se Lorenzo avesse insistito ancora una volta per prenotargli il primo volo in partenza da Malpensa, guardarlo mentre diceva “sì” e troncava la conversazione con un secco “ci penseremo”, al quale lei rispondeva slacciandosi nervosamente il cardigan azzurro e scuotendo piano la testa, significava rimproverarlo per averle negato qualcosa a cui teneva molto e, in modo più recondito, di non essere abbastanza ambizioso da desiderare una vacanza lussuosa.
Non gli aveva mai rinfacciato che il suo lavoro di ingegnere lo avesse portato a visitare praticamente tutto il mondo (era stato sul Paraná, in Georgia, sul Niger, in Cina, e in un’altra dozzina di paesi, mentre lei era rimasta a casa a pensare alla figlia e a poco altro), ma solo perché aveva immaginato che, una volta in pensione, Ivano le avrebbe fatto scoprire i posti in cui era stato, che insieme avrebbero viaggiato con lentezza, facendo lunghe pause senza mai stancarsi di parlare.
I pochi viaggi che si erano concessi in tutti quegli anni non avevano mai soddisfatto Sofia, non fino in fondo. All’inizio si fingeva contenta, ma la prova che si aspettava qualcosa di diverso era il guardaroba che cercava di portare con sé prima che Ivano se ne accorgesse e le facesse cambiare idea. Con la valigia aperta sul letto, impilava con ordine camicie di seta, abiti longuette, sandali col tacco. Le mete scelte da suo marito avevano sempre un che di austero ed erano decisamente meno esotiche di quelle sognate da lei; non che l’Ardèche, i Pirenei, l’Olanda non le piacessero, ma erano mete troppo prevedibili, troppo vicine all’Italia, per soddisfare davvero la sua immaginazione.
Nell’organizzare quei viaggi, Ivano si era sempre e solo ispirato alla praticità (valigie striminzite e l’imposizione di un guardaroba fatto di vecchi golf e pantaloni lisi), alla visione spartana dei dettagli (hotel pratici e senza vezzi), all’anonimato (il suo proverbiale understatement), mentre Sofia avrebbe voluto alberghi di lusso, massaggi, cene sulla spiaggia, poco sport e qualche gita culturale.
Quando, anni prima, Lorenzo li aveva invitati per festeggiare il suo sessantesimo compleanno e Ivano aveva risposto che andare a Santo Domingo in agosto non sarebbe stato ragionevole, vista la loro insofferenza al caldo, le anche malandate, e soprattutto l’insonnia, il loro matrimonio era stato a un passo dall’implodere.