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Questo libro è unico tra le molte introduzioni alla civiltà degli indiani d’America, innanzitutto perché non lo scrisse un antropologo ma un indiano, un Sioux cresciuto negli anni tragici in cui si compiva il massacro della sua gente. Eastman però conobbe molto bene anche il mondo dei bianchi: dopo aver raggiunto il dottorato in medicina all’Università di Boston, a lungo si dedicò alla vana impresa di fare intendere alle autorità americane le ragioni degli indiani. Alla fine gli rimase una lucida disillusione, sentimento che spesso si avverte in questo libro, dove si espongono sobriamente gli elementi di cui è costituita «l’anima dell’indiano», in modo che perfino un bianco possa capirla. Basterà aprire queste pagine per essere subito avvolti dallo hambeday, quella «sensazione misteriosa», che è l’esperienza primordiale dell’indiano, primo segno della sua «comunione solitaria con l’Invisibile». Da quella sensazione discende ogni altro aspetto della sua civiltà, costruzione altamente complessa, austera e illuminata, che qui Eastman illustra con dolce e desolata fermezza.
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