Debuttò giovanissimo con la raccolta di versi Primo vere (1879), cui seguì nel 1882 Canto novo, nel quale è evidente l’imitazione di Carducci temperata da una già personale vena sensuale e naturalistica. A Roma, dove iniziò (ma non concluse) gli studi alla facoltà di lettere, D’Annunzio visse all’insegna della mondanità e dell’estetismo, sempre alla ricerca di nuove sensazioni in nome di un compiaciuto erotismo al quale sarebbe rimasto fedele sino alla fine con ossessive varianti. Dal decadentismo europeo assimilava, intanto, ideali di sensibilità e di raffinatezza e il gusto del tecnicismo formale: nacquero così, accanto ad alcune raccolte di versi, romanzi come Il piacere (1889), Giovanni Episcopo (1891) e L’innocente (1892). In questi ultimi è avvertibile la lezione di Tolstoj e Dostoevskij, ma ridotta, da studio del profondo, a languida ostentazione del morboso. Dalla stessa vena decadentistica nacque, in poesia, il Poema paradisiaco (1893), che anticipa in modo notevole, soprattutto dal punto di vista della versificazione, modi che saranno tipici della poesia crepuscolare. Nel periodo immediatamente successivo, D’Annunzio mostrò di voler colmare un vuoto morale, di cui egli stesso avvertiva il rischio, con il mito del «superuomo» desunto da Nietzsche; ma alla «volontà di potenza» teorizzata dal filosofo tedesco, nel quadro di una distruzione della morale comune e di una rifondazione di essa, D’Annunzio sostituì ideali estetizzanti, destinati a comporre l’abbagliante mosaico di una «vita inimitabile». Appartengono a questo periodo i romanzi Il trionfo della morte (1894), Le vergini delle rocce (1895) e Il fuoco (1900) e i drammi La città morta (1899) e La Gioconda (1899), questi ultimi scritti durante la relazione di D’Annunzio con la più grande attrice del tempo, Eleonora Duse.
Ritiratosi nella villa La Capponcina, a Settignano, il poeta lasciò sedimentare l’onda contraddittoria delle sue ambizioni e compose alcuni dei suoi capolavori: i primi tre libri (Maia, Elettra e Alcyone) delle Laudi del cielo, del mare, della terra, degli eroi, pubblicati nel 1903; le tragedie Francesca da Rimini (1902), La figlia di Iorio (1904), La fiaccola sotto il moggio (1905), La nave (1908), Fedra (1909) e il romanzo Forse che sì forse che no (1910). I creditori gli sequestrarono la villa: D’Annunzio, sdegnato, riparò, «in volontario esilio», in Francia dove scrisse, tra l’altro, in un prezioso francese, il dramma Le martyre de Saint Sébastien (1911), musicato da C. Debussy, e il quarto libro delle Laudi (Merope, 1912), che raccoglie le Canzoni delle gesta d’oltremare, celebranti la conquista della Libia. Al mito del superuomo tende ora a sostituirsi, o perlomeno ad affiancarsi, il mito della supernazione, chiamata dal destino all’impero: transfert in cui ben si rispecchia una borghesia di recente formazione, ma già bisognosa di evasioni e soprattutto di alibi.
Tornato in Italia allo scoppio della grande guerra, D’Annunzio fu interventista e combattente valoroso: si ricordano, fra le sue imprese guerresche, la «beffa di Buccari» (10 febbraio 1918) e il volo su Vienna (9 agosto 1918), con il lancio di volantini tricolori sulla città. Ferito a un occhio, scrisse, «pur con l’uno», il Notturno, un’opera in prosa che caratterizza un momento di ripiegamento su se stesso e contiene alcune delle sue pagine più perfette e vibranti. Dopo la guerra, fu l’ideatore e il comandante della marcia da Ronchi a Fiume; occupò questa città dal 1919 al 1921, con un pugno di volontari, proclamandovi una sua reggenza. Fu sloggiato dalle truppe italiane. Ritiratosi a Gardone, in una villa da lui chiamata «Vittoriale degli italiani», guardò con favore al fascismo e morì dopo un lungo periodo di splendido ma in fondo patetico isolamento, continuando a comporre opere, per lo più rievocative e autobiografiche (Il venturiero senza ventura, 1924; Il compagno dagli occhi senza cigli, 1928 ecc.).