Propr. S. Michael F., regista statunitense. I suoi anni giovanili sembrano materiale ideale per un film: vagabondo per le strade d'America, reporter di cronaca nera dallo stile incisivo, soldato in Nordafrica e in Europa durante il secondo conflitto mondiale. Esordisce nella regia solo nel 1949 con Ho ucciso Jesse il bandito (1949), western atipico, percorso da fremiti omoerotici, che lascia il pubblico sconcertato. Con Corea in fiamme (1950) e I figli della gloria (1951) affronta il genere bellico senza ipocrisie e timidezze, mostrando la guerra in tutta la sua illogica violenza. Che si cimenti con un film di guerra o un poliziesco, F. – quasi sempre autore delle proprie sceneggiature – si mantiene fedele all'idea del set come un campo di battaglia, aggredendolo con uno stile energico e audace, in grado di alternare elaborati piani-sequenza a frenetici stacchi di montaggio. Nelle sue mani il genere non è mai un alibi, piuttosto un pretesto entro il quale far esplodere contraddizioni e temi scottanti: così Mano pericolosa (1953), dietro l'apparenza di tipica spy-story da guerra fredda, offre un ritratto non banale del mondo dei vagabondi newyorkesi, mentre La porta della Cina (1957) prima e Il kimono scarlatto (1959) poi affrontano urticanti questioni come l'amore interraziale e il razzismo, rifuggendo da soluzioni consolatorie. I suoi personaggi sono spesso dei nevrotici, mai completamente simpatici o antipatici, lontani dalle classiche oleografie hollywoodiane per la loro tendenza a evadere dagli stereotipi: così il poliziotto di La casa di bambù (1955) si rispecchia ambiguamente nel criminale suo avversario, mentre il soldato sudista di La tortura della freccia (1957) preferisce diventare sioux piuttosto che arrendersi ai nordisti. L'innata capacità di maneggiare piccoli budget con esiti mirabili gli torna utile nei film dei primi anni '60, profetiche miscele di gangster, thriller e mélo che lasciano ancora a bocca aperta: tra La vendetta del gangster (1961), discesa agli inferi in un sottobosco criminale che non conosce pietà, e Il bacio perverso (1964), storia della redenzione impossibile di una prostituta che non ha paura di uccidere quando è davvero necessario, risplende di luce propria Il corridoio della paura (1963), odissea psichiatrica di un giornalista che si finge pazzo, raccontata in maniera implacabilmente visionaria. La volontà di rimanere indipendente rende F. inviso agli studios (ma nel 1980 gira, con un ricco budget, Il grande uno rosso, summa ideale del suo cinema bellico), obbligandolo, dopo un periodo di inattività, a scegliere la via di progetti a bassissimo costo (Cane bianco, 1982) e di precarie coproduzioni internazionali (Strada senza ritorno, 1989), non sempre all'altezza della sua fama. A partire da Il bandito delle ore undici (1965) di J.-L. Godard, F. recita in molti film d'autore, europei e americani, icona di una certa idea di cinema libero e spregiudicato.