(Pescasseroli, L’Aquila, 1866 - Napoli 1952) filosofo, critico e storico italiano.La vita e le opere Senatore dal 1910, per un anno ministro dell’istruzione con Giolitti nel primo dopoguerra, mostrò un’iniziale indulgenza tattica verso il fascismo; dopo il 1925 (quando, su invito di Giovanni Amendola, redasse il Manifesto degli antifascisti) mise in atto una ferma opposizione aventiniana. Godette tuttavia di una certa libertà che gli permise di continuare le pubblicazioni della sua rivista «La Critica», redatta prima dell’avvento del fascismo, in collaborazione con G. Gentile. Dopo il 1943 si trovò presidente del partito liberale e componente del comitato di liberazione: fu ministro nei governi Badoglio e Bonomi, poi senatore di diritto; nel 1947 si dimise dal partito liberale e chiuse la sua esistenza tornando agli studi.Aveva esordito, come intellettuale, con un intenso lavorio erudito e storico (sulla rivoluzione napoletana del 1799, sui teatri di Napoli ecc.), favorito dal gusto provinciale e positivistico dell’ambiente. Ma dalla cronaca erudita seppe presto sollevarsi alla storia della cultura, del pensiero e dell’arte. Le perplessità sul metodo obbligarono lo storico a farsi filosofo, a definire il concetto di storia e i suoi rapporti con l’arte. Si accostò così a Hegel (mediato dal marxismo di Antonio Labriola), a Vico, a De Sanctis; approdò infine alla fondamentale Estetica (1902), i cui principi cominciò a diffondere con articoli «dimostrativi» sulla «Critica» (dal 1903). L’esposizione della «filosofia dello spirito» veniva intanto precisandosi con la Logica (1908) e la Filosofia della pratica (1908), fino a compiersi con Teoria e storia della storiografia (1917) e La storia come pensiero e come azione (1938). Le sue idee estetiche si specificarono, con successive integrazioni, in Problemi di estetica (1910), Nuovi saggi di estetica (1920), La poesia (1936); e cercarono verifiche puntuali fra gli autori del passato classico e recente: La letteratura della nuova Italia (6 voll., 1914-40), La poesia di Dante (1920), Ariosto, Shakespeare e Corneille (1920), Poesia e non poesia (1923), Poesia popolare e poesia d’arte (1933); fondamentali restano ancora oggi i due volumi di Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911 e 1931). Sono poi da ricordare gli ampi panorami storiografici: Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Storia del Regno di Napoli (1925), Storia dell’età barocca in Italia (1929), Storia d’Europa del secolo XIX (1932); nonché i volumi miscellanei delle 5 serie di Conversazioni critiche (dal 1918). Fu anche editore di testi: in primo luogo, avviò la pubblicazione e la ristampa delle opere desanctisiane, poi inaugurò, con una scelta di Lirici marinisti, la collana degli «Scrittori d’Italia», da lui diretta.Il filosofo e il critico Ridotta, secondo i principi hegeliani, tutta la realtà a vita dello spirito, C. ne distingue quattro categorie: due della sfera conoscitiva (estetica e logica), due di quella politica (economia e morale). Pur riconoscendo l’autonomia e la reciproca determinazione delle quattro forme che si fanno, circolarmente e all’infinito, l’una materia dell’altra egli considera l’intuizione artistica idealmente anteriore alla conoscenza concettuale, a ogni tipo di azione, e quindi «pura»: «sintesi a priori» di contenuto e di forma, secondo la lezione desanctisiana, scienza primitiva e ingenua, secondo il dettato vichiano. Più tardi C. giustificherà anche una più complessa fenomenologia artistica, individuando, accanto a quella «pura», l’espressione «sentimentale», «letteraria», «prosastica» e «oratoria». Ma la distinzione accurata fra le parti dell’opera letteraria in cui l’intuizione è allo stato puro («poesia») e le parti ibride in cui essa si contamina con la riflessione intellettuale e morale («non poesia») sarà il canone-guida di tutta la sua critica. Di qui il drastico giudizio sulla Divina Commedia, in cui distinse la discontinuità lirica dalla struttura ideologica, la qualificazione di opera oratoria attribuita ai Promessi sposi, l’apprezzamento dell’isolata componente idillica in Leopardi.La ferrea congiunzione tra principi filosofici e prassi esegetica, che spinse C. a giudizi perentori su ogni autore, lo costrinse anche nei confini di un gusto ottocentesco: lodò il sano Carducci e disprezzò l’irrazionalismo e il sensuale in Pascoli e D’Annunzio; non sopportò il binomio scienza-arte del verismo, anche se vi distinse i capolavori del Verga come opere eccentriche a quella corrente. Baudelaire fu il limite estremo a cui C. poté arrivare; Verlaine, Mallarmé, Rimbaud restarono incompresi come pure le avanguardie storiche; Proust fu avversato con la stessa decisione con cui era stato amato Goethe.Dilagante fu l’influenza esercitata da C. nei confronti della cultura (si pensi al programmatico «idealismo militante» di una rivista come «La Voce» di G. Prezzolini) e soprattutto della critica italiana del Novecento; i correttivi via via introdotti: desanctisiani (Russo), stilistico-filologici (De Robertis), gramsciani e gobettiani (Sapegno, Debenedetti) ecc., non valsero a ridimensionarla che assai parzialmente e gradualmente, con fatiche ed equivoci. Con l’avvento delle nuove metodologie seguì, ovviamente, una radicale opposizione a C. e al crocianesimo.Oggi, superate in parte le polemiche, si è avviata un’analisi puntuale del prosatore, dotato di uno stile articolato e limpido al tempo stesso, e si valuta più serenamente la complessiva figura dell’intellettuale, la sua capacità di intervenire in ogni settore del sapere, di mantenere numerosi contatti con la cultura europea (l’amicizia con Th. Mann e con K. Vossler) in un’epoca di gretti provincialismi.