Scrivere poesie è un’arte, un’arte allo stato puro, perché la trasposizione su carta è la naturale conclusione di un’idea, di uno spunto sorto nella mente e poi inconsapevolmente ricreato nella stessa, ampliando i termini, puntualizzando, cercando forme che possano meglio sviluppare quell’intuizione alla base della quale c’è un processo cognitivo e di esperienze di cui abbiamo una coscienza che sovente non riusciamo a spiegarci. Tutto questo per dire che una poesia non è solo il frutto di una innata creatività, ma anche del nostro status culturale che ci porta a trasporla nelle forme più varie, azzardando anche sperimentazioni, affinché sia sempre presente una dinamica volta a un’ideale, anche se non completamente raggiungibile, perfezione. Cristina Bove, poetessa che seguo da anni, applica da molto tempo questa sperimentazione e ce ne offre un risultato in questa silloge, Mi hanno detto di Ofelia, il cui titolo è anche quello di una poesia che ne è parte. Ora, appare anche ovvio che cercare nuovi percorsi espressivi non può offrire né un’uniformità di risultati, né può sortire liriche tutte completamente riuscite, ma resta il fatto che i tentativi sono sempre indice di una continua ricerca e sono esempi di una costante evoluzione volta a meglio proporre le proprie idee. Così nella lettura di questo libro ho trovato poesie che, a mio avviso, se non trovano una grazia di esposizione, sono però idonee a trattare argomenti spesso piuttosto complessi, e altre che, al contrario, pur se molto gradevoli, vanno meno in profondità. Non c’è niente di strano ed è tipico della sperimentazione, grazie alla quale sarà poi possibile fondere in un unico complesso di versi gradevolezza e approfondimento. Così, se troviamo una poesia come Appuntimenti (addensate tra costole / discostate dagli archi / io violoncello tra laringe e cuore / sonorità profondo / lungo le corde d’improvviso / in gola /…) di non certo facile comprensione, un insieme di invenzioni che sembrano slegate, pur tuttavia, un po’ più avanti, ci imbattiamo in Inamovibile (Porgo la mia stanchezza / il mio mondo di pace provvisoria / a Chi dei dubbi è padre / e non mi schiodo / dalle porte murate dove in salvo / sto cercando di vivere l’azzardo / dei miei giorni in penombra /…), riuscitissima, sia come svolgimento del tema, sia come equilibrio strutturale e armonico. Potrei fornire altri esempi perché le poesie non sono poche (se non ho contato male, sono sessanta), ma preferisco non farlo al fine unico che sia il lettore a scoprire pagina dopo pagina questa raccolta che, più che un’opera compiuta, è un cantiere, dei cui lavori in corso possiamo vedere i vari stati d’avanzamento, senza dimenticare che mai e poi mai l’opera risulterà finita, perché il poeta che si ferma non ha più nulla dire, se non lamentarsi di una vena creativa e di un interesse ormai scemati. E’ infatti proprio il caso di dire che chi si ferma è perduto, anzi, nel caso del poeta, chi si ferma non riesce più a raggiungere l’arte. Da leggere, senz’altro.
Mi hanno detto di Ofelia
Divagazioni, divertissement, diletto? Le definizioni colgono solo una parte dell'essenza, restringono il campo e, delimitandolo, lo tradiscono, restituendone, appunto, una versione tranquillizzante perché divulgabile. È bene, allora, diffidare di etichette sbrigative, sottrarsi alla tentazione di catalogare. Consiglio, questo, particolarmente calzante per "Mi hanno detto di Ofelia" di Cristina Bove. Silloge proteiforme, nel senso più ampio e nobile del termine, poiché dalla ricchezza e dalla mutabilità di forme e di declinazioni della poesia essa trae una linfa originalissima. La parola, quanto mai duttile qui, attraversa tutti gli stati della materia e altri ne crea, mescolando sapientemente e in guisa mai scontata gli elementi 'naturali'.
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Autore:
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Editore:
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Collana:
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Anno edizione:2012
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
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Renzo Montagnoli 22 gennaio 2013
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