Niente da dimenticare. Verità e menzogne su Lotta continua
Quello che ha formato e tenuto insieme Lotta continua, e che ancora adesso irrita o intriga amici e nemici a distanza di decenni, sono state l’amicizia e la fiducia reciproca tra persone dall’origine e dal destino più diverso. Un’amicizia e una fiducia formatesi e confermate in un’esperienza comune di qualcosa di raro e straordinario: la conquista di una propria autonomia, sia individuale che collettiva; la costruzione di una propria dignità umana attraverso l’azione e l’assunzione, senza deleghe, delle proprie responsabilità; l’esperienza della scoperta di una socialità libera, al di fuori degli schemi ufficiali, sia del governo che dell’opposizione, sia della cultura accademica che di quella della sinistra ufficiale, sia della gerarchia di fabbrica che di quella sindacale, sia del potere istituzionale che della tradizione del movimento operaio. Trent’anni dopo la strage di Piazza Fontana, del 12 dicembre 1969, gli anni di galera che non erano riusciti a infliggere a Pietro Valpreda li avrebbero fatti pagare ad Adriano Sofri: per aver contribuito, con Lotta continua, a smascherare il cuore del progetto della “strategia della tensione”. Il difensore di Marino aveva spiegato il senso della sua lunga battaglia giudiziaria, durata dodici anni, per far condannare Sofri, Pietrostefani e Bompressi: per lui il Sessantotto doveva essere rappresentato in giudizio da un collettivo – il famoso Esecutivo di Lotta continua – mentre Sofri, il cui ruolo di mandante sarebbe stato probabilmente frutto di un equivoco, era stato condannato, perché, invece di sostenere che “il mandante del delitto Calabresi è un mandante collettivo, e non Adriano Sofri, aveva voluto difendere la generazione del ‘68”. Possiamo riconoscere in questa dichiarazione una vera e propria confessione del fatto che tutto il processo è stato attraversato da un insano spirito di vendetta nei confronti della generazione del ‘68 e di Lotta continua in particolare.
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