La ribellione del numero
«Noi siamo di razza divina e possediamo il potere di creare» scriveva in una lettera del 1888 un grande matematico, Richard Dedekind. Quella frase corrisponde al clima di generale ebbrezza ed euforia che regnava allora nella matematica. Con le geometrie non euclidee di Lobacevskij e Riemann, con i numeri transfiniti di Cantor sembrava che si fossero dischiuse le porte di un «paradiso» senza confini, pullulante di inaudite «entità mentali», le quali sussistevano le une accanto alle altre, obbedendo all’unica condizione di non essere contraddittorie. Poi, improvvisamente, nel giro di pochi anni, fra il 1897 e il 1901, cominciarono ad affiorare i primi «paradossi», che segnalavano altrettanti vicoli ciechi nella teoria degli insiemi e nella nuova costruzione logico-matematica di Russell. Era la prima avvisaglia di una devastante «ribellione del numero»: come se la formula rivelasse di avere una natura propria, magari incompatibile con quella della mente che l’aveva appena esplicitata. I matematici furono subito tentati di scrollarsi di dosso, in quanto irrilevanti, tali fastidiose difficoltà. Anzi, proprio nei primi decenni del secolo assistiamo allo svilupparsi della sfida più ambiziosa mai sostenuta dalla matematica: il progetto di assiomatizzazione totale di Hilbert. Ma presto anche quella grandiosa impresa mostrò le sue crepe. Infine, la tarda e definitiva vendetta dei paradossi venne nel 1931 con il teorema di Gödel, che di quei paradossi dimostrava l’insuperabilità. Da allora si può dire sia successo, per la «crisi dei fondamenti», quello che è avvenuto per tante altre scoperte del Moderno: ciò che si era presentato come drammatica e angosciosa novità è diventato parte della vita normale. Le sabbie mobili che un giorno paralizzavano di paura sembrano essersi mutate in un parco pubblico, dove accorti giardinieri hanno disegnato viottoli che permettono di evitare i punti dove si sprofonda «subito».
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