Così è fatto il sentimento collettivo: basta una scintilla, al momento giusto, perché divampi un incendio. Una fiammata può improvvisamente scatenare un popolo, che tutto insieme invoca qualcuno su cui riversare le proprie paure, le proprie miserie, la propria carica di odio. Un meccanismo infernale, ripetutosi nella storia mille volte. Così è a Milano, durante la peste del 1630: un uomo viene visto aggirarsi in maniera sospetta all'alba. Ciò basta per farlo arrestare con l'accusa infamante di essere un untore. A additarlo, tra frasi vaghe e mezzi silenzi, è "una donnicciola chiamata Caterina Rosa", ma la sua voce cresce, diventa quella di una città intera, di un popolo intero. Il processo che ne segue, una lunga catena di supplizi e di confessioni estorte con la tortura, decreta la condanna capitale di due innocenti, Guglielmo Piazza e il barbiere Gian Giacomo Mora, e la distruzione della casa di quest'ultimo. Come monito, una "colonna infame" viene eretta sulle macerie dell'abitazione di Mora. Il Gian Antonio Stella, nella prefazione, non esita a mostrare l'intima attualità della denuncia manzoniana: "Al fondo, anche dentro una folla impazzita che assalta urlando una prigione per linciare un poveretto o incendia la casa di un sospetto, c'è sempre la responsabilità individuale".
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Anno edizione:2009
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