Potrebbe venire spontaneo definirlo un romanzo di denuncia ma sarebbe riduttivo. Capace di evocare quelle sensazioni e riflessioni esistenziali nelle quali molti di noi potranno riconoscersi, a cavallo tra il proprio vissuto individuale e una coscienza sociale (spesso poco cosciente) comune e condivisa. Non comune invece, rara anzi di questi tempi, la capacità di rendere in prosa il sempre più urgente bisogno di smascherare meccanismi, realtà, rapporti che, in modo più o meno celato, caratterizzano la società che abitiamo nella nostra epoca e quella da poco passata. Una prosa elegante ma mai pretenziosa o retorica. A tratti poetica, in altri momenti, al contrario, estremamente lucida e incisiva, asciutta. Spesso impietosa, tanto nei momenti più introspettivi che in quelli di più esplicita denuncia. Racconta la fabbrica nella sua nuda crudezza senza perdersi dietro i fronzoli di astrazioni che rischiano di lasciare pezzi di realtà dietro di sé, eppure riuscendo a ricondurre quella realtà quasi a un archetipo che ritorna, in forme mutate, nella realtà che oggi condividiamo. Interessante a questo proposito il parallelo che si crea tra la descrizione iniziale dell’abitazione e delle giornate trascorse a Milano dal protagonista narrante e quella del padre quando a suo tempo vi si trasferì. Passa il tempo, cambiano le forme in cui si esprime ma resta la stessa percezione di insensatezza, d’inutilità, lo stesso malessere, dati forse dalla medesima appartenenza di classe, dal sentirsi ai margini di meccanismi più grandi e fuori dal nostro controllo. Forse più ancora ai margini oggi, a galla in un’epoca che non concede più neppure di lenire il senso d’inadeguatezza e di isolamento nel perseguimento di rivendicazioni in grado di riconsegnare l’individuo alla sua comunità. Più individui oggi di ieri, cerchiamo in realizzazioni personali una via d’uscita e fatichiamo a riconoscere nell’altro, pure quando condivide il nostro stesso sentire, qualcuno da non macinare sotto la nostra disperata quanto solitaria ricerca di senso.
Vincitore del Premio Campiello - Opera Prima 2014.
Una valle severa. In mezzo, il lento andare del fiume. Un uomo tira pietre piatte sull'acqua. Il figlio lo trova assorto, febbricitante, dentro quel paesaggio. è lì che ha cominciato a dipingere, per fare di ogni tela un possibile riscatto, e lì è ritornato ora che il male lo consuma. Ma il male è cominciato molto tempo prima, negli anni settanta, quando il padre-pittore ha abbandonato la sua valle ed è sceso in pianura verso una città estranea, dentro una stanza-cubicolo per dormire, dentro un reparto annebbiato dall'amianto. Fuori dai cancelli della fabbrica si lotta per i turni, per il salario, per ritmi più umani, ma nessuno è ancora veramente consapevole di come il corpo dell'operaio sia esposto alla malattia e alla morte. Lì il padre-pittore ha cominciato a morire. Il figlio ha ereditato un panico che lo inchioda al chiuso, in casa, e dai confini non protetti di quell'esilio spia, a ritroso, il tempo della fabbrica, i sogni che bruciano, l'immaginazione che affonda, il corpo subdolamente offeso di chi ha chiamato "lavoro" quell'inferno. Ci vuole l'incontro con Cesare, operaio e sindacalista, per uscire dalla paura e cominciare a ripercorrere la storia del padre-pittore e di tutti i lavoratori morti di tumore ai polmoni. È allora che il ricordo diventa implacabile e cerca colori, amore, un nuovo destino.
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Anno edizione:2013
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