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“Lungo il loro fronte è stata calata una cortina di ferro. Non sappiamo cosa stia accadendo dietro di essa”: queste le parole rivolte da Churchill al presidente statunitense Truman, in una lettera datata nel maggio del 1945 – tre mesi dopo la conferenza di Jalta cui i due hanno partecipato in compagnia di Stalin. La stessa definizione, “cortina di ferro”, sarà utilizzata dal premier britannico in un discorso l’anno successivo a Fulton (Missouri, USA) ed entrerà nel linguaggio comune per definire la situazione creatasi dopo la fine della seconda guerra mondiale. L’Europa dell’est di fatto è caduta sotto il patrocinio dell’Unione Sovietica e non intende (o non può?) più comunicare con l’esterno. Quel che avviene in Romania, Ungheria, Polonia e persino Germania orientale viene presentato dai megafoni del partito comunista ed è evidentemente falso: si favoleggia sulla costruzione di un eden quando invece la gente s’immiserisce e viene privata della libertà d’espressione. Ma la Russia, si sa, è stata la prima nazione a sconfiggere Hitler e quindi non può essere disturbata più di tanto, men che meno con domande scomode. Non tutti si fanno illusioni sul quel che succede al di là della “cortina di ferro” ma la verità verrà alla luce solo a tre anni dalla morte di Stalin. Sarà Nikita Chruš?ëv, nel XX Congresso del PCUS, ad aprire uno squarcio su una delle pagine più buie della nostra storia. Quest’anno si è “festeggiato” (per così dire) il 60° anniversario di quell’evento e da noi arriva, a mo’ di cadeau, il libro di Anne Applebaum in verità pubblicato negli USA nel 2012. Autrice di un altro, imponente (700 e passa pagine) e, secondo molti, importante saggio dedicato alla storia dei gulag sovietici (Gulag: A History, 2003), l’autrice statunitense presenta con ‘Iron Curtain: The Crushing of Eastern Europe’ il progetto di una vera e propria impresa: una storia globale ovvero politica, sociale e culturale, dell’Europa sovietizzata. Non mancano certamente opere sull’argomento, ma in genere l’approccio utilizzato è più particolare: pertanto abbiamo saggi sulla DDR o sulla Jugoslavia di Tito o ancora sulla questione polacca. Non so quanti abbiano invece tentato di raccontare una storia generale e onnicomprensiva di tante e tali realtà. L’obiettivo della Applebaum è trovare, fra i casi presi in esame, il filo rosso che permetta di stabilire i punti nodali della strategia comunista nella sua espansione nel continente. La ricerca impiega un enorme lavoro di raccolta e confronto di fonti, alcune fra loro anche assai lontane. E si presta purtroppo agli effetti collaterali di una simile impostazione. So che certe cose non andrebbero dette, e specialmente di una signora. Ma credo che la Applebaum, pur essendo sposata a un politico polacco, presenti la caratteristica visione americana dei fatti extra-americani. Ai suoi occhi, infatti, l’Europa dell’est è una sorta di magma fondamentalmente unitario, un insieme di popoli e nazioni tra loro distinti per pochi dettagli e quindi studiabili in blocco. Quel che succede in Polonia non differisce da quel che avviene nell’ex-Cecoslovacchia. In Romania il partito comunista agisce come in Ungheria. Sono tutti una grande famiglia, come gli ‘arabi’ per noi sono tutti uguali dal Marocco al Pakistan. Il libro si concretizza così, a dispetto delle ottime intenzioni, come un affastellamento di eventi, dati e aneddoti estrapolati dal contesto e messi insieme al fine di dimostrare le tesi di fondo. Il risultato diventa così una confusa affermazione di fatti superficiali (quando non arcinoti) ma non un vero e proprio ragionamento. L’autrice avrebbe fatto meglio a restringere lo studio a un oggetto più specifico (la Polonia? la DDR?) provando magari a riconoscere lì gli indizi di quello che va cercando. E soprattutto evitando di porre a paragone situazioni e storie che fra loro, a dispetto delle apparenze, c’entrano poco.
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