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Anno edizione: 2014
Anno edizione: 2015
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Anche questo libro di Carlo Levi mi conferma l'ottima opinione circa questo autore.Sarà per la sua sensibilità di pittore ma la sua narrazione si apre spesso a descrizioni sensoriali (colori certo, ma anche i suoni della città o di una via per esempio) che apparentemente non sono così funzionali alla storia (o invece sì). Questa caratteristica si ritrova anche in questo racconto ambientato nel primo dopoguerra nel momento di crisi del governo Parri quando si comincia a delineare - agli occhi dell'autore - il rimontare delle forze più conservatrici (i Luigini li chiama) e la graduale perdita di influenza delle forze sane del paese. Eccellenti alcune pagine sui vizi nazionali.
Come in Cristo si è fermato a Eboli e Le parole sono pietre anche questo libro è a tutti gli effetti una commistione fra romanzo e saggio, per quanto, nel caso specifico, l’analisi storica prenda il sopravvento, fornendo un quadro altamente esauriente di come lo spirito originario della Resistenza fu ben presto soffocato dalla caratteristica tipica di noi italiani, vale a dire un radicato conformismo che fa di ogni occasione di rinnovamento un semplice paravento, dietro il quale si cela sempre un immobilismo, una difesa ottusa del privilegio che sarà ben delineata in seguito da Tomasi di Lampedusa con Il Gattopardo. E così tutto cambia per restare poi uguale, una verità sacrosanta che possiamo verificare qutidianamente. Del resto Levi aveva ben individuato i mali insanabili di questo paese, dominato da una burocrazia del tutto ottusa e da una classe politica avulsa dalle reali esigenze dei cittadini, una vera e propria casta che negli anni si è di fatto impadronita del potere, delegato da un popolo ancora lontano dalla consapevolezza dei suoi diritti e incapace di concretizzare un’autentica democrazia. Nel libro risuonano così del tutto retoriche parole come libertà, potere al popolo, democrazia. Esse sono semplicemente degli specchi messi ad arte per non riflettere ciò che nascondono e così l’ideale di profondo rinnovamento della Resistenza si è perso assai velocemente per strada nell’Italia derelitta del dopoguerra; venuto meno l’impulso della guerra di liberazione, tutto si è afflosciato e così si è ancora una volta gettata al vento un’opportunità storica, ma forse perché le rivoluzioni abbiano successo non devono avere mai fine. Curiosamente, l’epoca presenta analogie con l’attuale, con il desiderio di alcuni di tornare al particolare e di altri, invece, di sperare in un’Europa veramente unita, la sola che forse avrebbe potuto liberarci dall’imperante parassitismo. Sono frequenti le osservazioni, le riflessioni, comuni nelle opere di Levi, e che si innestano nel tessuto quotidiano, interagendo con fatti apparentemente insignificanti, ma rivelatori della situazione del periodo. Così ci sono l’esperienza di direttore di un giornale di sinistra, le difficoltà finanziarie dello stesso, l’abulia dei redattori, le cui descrizioni sono un’ulteriore prova delle eccelse qualità di questo scrittore, e poi c’è Roma, tanto amata quanto odiata, una città insolita, con il suo respiro notturno quasi di belva ferita, rilucente di sole nelle piazze, tetra nelle scale buie delle case. La mano del pittore emerge allora prepotente e si materializzano quadri fatti di parole, appassionanti, capaci non solo di mostrare, ma anche di palpitare di atmosfere. L’orologio è senz’altro un libro eccellente che, se non ha il pathos proprio di Cristo si è fermato a Eboli, è tuttavia una testimonianza storica unica e del tutto indipendente. Da leggere, senz’altro, per meglio comprendere il presente.
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