Il piccolo museo dei cuori infranti

Non voglio che se ne vadano. Sono sicura che li dimenticherò, se se ne vanno adesso. Penso di correre giù per le ottantasei rampe di scale che separano la cima dell'Empire State Building dalla strada e alzare la mani, sbarrargli la strada e urlare: «Non andate via!» Ma se lo faccio, sono sicura che uno di loro mi mangerà, probabilmente il tirannosauro. Mi solleverà con le sue zampe rabbiose, mi romperà le ossa tra le enormi fauci e mi masticherà i tendini con gli incisivi affilati. Non posso fermarli: i dinosauri stanno lasciando New York. Centinaia e centinaia, di ogni forma e grandezza, balzano fuori dalle porte del museo di Storia Naturale, prendono l'Holland Tunnel, attraversano il ponte di Brooklyn, guadano il fiume Hudson. Alcuni in gruppo, altri da soli. C'è una famiglia di triceratopi, la madre spinge uno dei piccoli con il naso, scalcia impaziente con le zampe anteriori. Un tirannosauro colpisce furioso le macchine abbandonate con le minuscole braccia. Uno pterodattilo piomba in picchiata su Broadway. Li guardo dalla terrazza panoramica dell'Empire State Building, infilando monetine nei cannocchiali per turisti per vederli da vicino: lo splendido luccichio grigioverde aria, lo schiaffo potente e distratto di una coda. Mi tolgono il respiro. Urtano le macchina e rompono i finestrini. Eph aveva ragione. Sono veri. Per un attimo, mi domando se sia il caso di dire a mio padre che i dinosauri se ne stanno andando. Ma non riesco a muovermi, e anche se so che non è possibile che tutti quei dinosauri vengano da un palazzo solo, tutto fila nella mia testa, e allora capisco che sto sognando.