La sarabanda è una danza lenta, caratterizzata da passi trascinati e solenni: la “Quinta Sonata per violoncello” di Bach, questa danza si trasforma nella colonna sonora simbolica del viaggio interiore che i due protagonisti, Marianne e Johan, intraprendono in “Scene da un matrimonio” e che proseguono, con una certa profondità tematica, in “Sarabanda”. Se nel primo testo il ritmo accelera, accompagnando lo sgretolarsi del loro legame, nel secondo il tempo sembra quasi sospeso: un fermo immagine che cattura passato e presente, già segnati da un epilogo tanto inevitabile quanto doloroso. Il loro ultimo confronto, alla presenza di un figlio e di una nipote, si fa specchio delle molteplici sfaccettature delle relazioni umane e familiari, rivelando quanto esse siano capaci di generare rimpianti, rancori e ferite mai del tutto rimarginate. In “Sarabanda”, la storia di Marianne e Johan si intreccia con quella di Henrik, figlio di primo letto di Johan, e della giovane Karin. Il loro rapporto turbolento riflette il legame complesso che Johan e Marianne hanno con le proprie figlie. Tra i personaggi, è proprio Karin ad avermi colpito di più: sia nella lettura sia nella messa in scena al Piccolo, dove Caterina Tieghi la interpreta con straordinaria intensità, divisa tra la passione per la musica, che rappresenta per lei una possibile via di realizzazione, e la sudditanza emotiva nei confronti del padre, Karin è intrappolata nel labirinto dei desideri altrui, soprattutto nell’ombra di sua madre Anna, la moglie defunta di Henrik. Anche tra Marianne e Johan aleggia un dolore profondo, un legame che, nonostante il tempo e le ferite, continua a tenerli uniti. Non è un caso che Marianne si precipiti da Johan all’inizio dell’opera, guidata dall’intima sensazione che lui l’abbia chiamata, che abbia ancora bisogno di lei, nonostante non si parlino da trent’anni. Con un testo che smaschera l’incomunicabilità dell’essere umano, “Sarabanda” mette in luce la tragedia delle scelte di chi si rifiuta di accettare la vita per ciò che è. Eppure, dietro questa resistenza al reale, si intravede un anelito alla dimensione del sacro, un desiderio di significato che continua a risuonare come un’eco sottesa alla narrazione.
Sarabanda
"Pensavo che tu mi stessi chiamando": è per rispondere a una misteriosa muta chiamata, che Marianne va d'improvviso a trovare Johan, l'ex marito con cui non è in contatto da trent'anni. La sua comparsa nella casa nei boschi dove Johan è tornato a vivere la sua vecchiaia, e gli incontri con suo figlio Henrik e la nipote Karin, entrambi violoncellisti venuti a passare l'estate nel vicino cottage sul lago, costringeranno ognuno a un confronto con gli altri e con se stesso, facendo emergere l'irrisolta complessità dei rapporti che li legano. Il mistero dell'amore e dell'odio, l'ineluttabile conflitto tra padri e figli, tra indifferenza e attaccamento morboso, la vecchiaia, l'angoscia degli "ultimi giorni" sono i temi di questa Sarabanda, danza lenta e severa in cui le coppie si formano e si disfano: dieci scene, dieci dialoghi in cui i personaggi s'incontrano e si sciolgono a due a due. Un testo scomodo nella sua cruda onestà, ma il cui vero messaggio non è affidato alle parole, ma ai silenzi e ai gesti: alla tenerezza di un abbraccio, di un tenersi per mano, di un denudarsi accettando di rivelare l'uno all'altro la fragilità di corpi segnati. Risuona forte la nostalgia della grande assente, Anna, la moglie, madre e nuora scomparsa, onnipresente nei pensieri e in una fotografia-icona. È la nostalgia di un amore che si riversa su tutti, "stato di grazia" e miracolo "che rende la vita possibile".
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Autore:
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Anno edizione:2005
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Maria Bennato 26 maggio 2025un testo che smaschera l’incomunicabilità dell’essere umano
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