La sconosciuta

Sono in piedi davanti alla tomba di mia madre quando arriva la telefonata. La lapide è semplice, alta al massimo fino alle ginocchia, in granito scolpito grossolanamente. Abbiamo riflettuto un po', io e mamma, sulle difficoltà che comporta essere poliziotto in una città in cui le persone non si preoccupano più per gli altri, bensì solo per se stesse. E, forse ancora più importante, sulla difficoltà che incontra un essere umano in una città del genere, in un'epoca del genere. Pesto i piedi per terra in modo da togliere la neve bagnata dalle scarpe da ginnastica e do le spalle alla tomba. Non trovo giusto parlare al telefono lì. Davanti a me si estende il paesaggio collinare dello Skogskyrkogarden, il cimitero nella foresta. Banchi di nebbia aleggiano tra le chiome dei pini e sotto di loro i tronchi scuri si ergono dalla neve verso l'alto, come punti esclamativi, a indicare la caducità della vita. Le foglie degli alberi e le lapidi gocciolano. Scorre acqua dappertutto. Penetra anche nelle mie scarpe leggere, si accumula tra le dita dei piedi come un memento bagnato: comprare quegli stivali che avrei dovuto regalarmi tempo fa. In lontananza scorgo delle figure scure che scompaiono nel bosco dei pini. Magari accenderanno dei ceri, oppure appoggeranno sulle tombe qualche ramo d'abete. Manca poco a Natale. Faccio qualche passo verso il senrtiero accuratamente spalato e do un'occhiata al display, ma so già chi è ancor prima di guardare. Ciò che sento nel diaframma è inconfondibile. Quella sensazione che mi risucchia da dentro, che pulsa e conosco così bene. Prima di rispondere mi giro un'ultima volta verso la lapide. Saluto con un cenno goffo della mano e mormoro qualcosa tipo «tornerò presto». Naturalmente è superfluo, lei lo sa che ritorno sempre.