L'ultima sera di Hattie Hoffman

Scappare è una gran rottura di Palle. E sì che avevo passato non so quante ore (o quante lezioni di matematica) a fantasticare di essere proprio lì, sotto il tabellone delle partenze all'aeroporto di Minneapolis; la fantasia si era avverta in ogni dettaglio, compreso il mio look da viaggio: leggins neri, ballerine e una felpa oversize color crema con le maniche lunghissime e uno scollo ampio che metteva in risalto il collo lungo e sottile. Avevo la mia bella valigia in pelle, e abbastanza soldi in tasca per colare in tutti i posti che avevo immaginato. Potevo andare ovunque. Fare qualsiasi cosa. E quindi, perché mi sentivo in trappola? Sono uscita di casa in punta di piedi, stanotte alle tre, lasciando sul tavolo di cucina un biglietto che diceva soltanto: «Torno più tardi. Baci, Hattie». Più tardi, ovviamente, significava «in un futuro non meglio precisato». Magari tra dieci anni, chissà. Ma forse non avrei mai smesso di soffrire; forse non sarei mai arrivata abbastanza lontano. Quel «Baci, Hattie» era un po' sopra le righe, in effetti. Noi non siamo gente che sparge per casa bigliettini sdolcinati; ma anche se i miei genitori avessero mangiato la foglia, mai e poi mai gli sarebbe venuto in mente che ero salita su un aereo per andare così lontano. «Figuriamoci, Hattie non è certo il tipo! Mancano solo due mesi al diploma, e ha avuto la parte di Lady Macbeth nella recita scolastica: ci tiene un sacco, lo so». Avrebbe detto così, mia madre. Mi pareva quasi di sentirla.