Nel romanzo “Amore se ti perdo”, il nucleo centrale è una relazione segnata da un’asimmetria di potere e di età: quella tra un insegnante anziano, Riccardo, e la sua ex-alunna Cinzia, più giovane, che decide di vivere il proprio interesse verso di lui al termine della carriera scolastica. L’inizio della storia è descritto come un legame idealizzato, quasi “salvifico”: lui si sente rivitalizzato da questa passione, lei crede di trovare in lui una guida e una presenza forte. Il tono muta presto, trasformandosi in un rapporto ossessivo e squilibrato, in cui la ragazza appare dipendente affettivamente, mentre lui oscilla tra bisogno di controllo e momenti di rabbia in sua assenza. In alcune parti la voce narrativa sembra quasi giustificare Riccardo, ma nei capitoli più tesi emerge con chiarezza il lato manipolatorio e distruttivo della relazione. È un amore “malato”, non nel senso melodrammatico, ma clinico: soffocante, ciclico, segnato da dipendenza, rotture e ritorni. Le sezioni in cui la ragazza viene definita con appellativi come “tozza” o lo sminuente “segretaria” assumono un tono lirico e distorto, come se l’autore tentasse di trasfigurare la realtà per tutelarsi e per concedersi una patente poetica che, francamente, risulta elementare e di basso livello. Il lettore percepisce il disagio: dietro la patina stilistica si avverte chiaramente il dominio e la riduzione di una persona reale a mero “personaggio”, con un sottile ma innegabile senso di sfruttamento narrativo della sua fragilità. La dinamica narrativa centrale non è soltanto quella di un amore finito male: si tratta di un sentimento nato già in posizione di ingiustizia, in cui la fragilità della giovane diventa materia narrativa per l’autore. Il racconto si configura così come un monito documentativo verso le donne, un avvertimento su uomini come Riccardo, capaci di trasformare rapporti diseguali in esperienze di potere e controllo.
