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E’ indubbio che una civiltà plurisecolare come quella contadina sia venuta meno nel volgere di pochi anni seguenti la fine della seconda guerra mondiale. Di questo evento epocale, e francamente straordinario, ha parlato Ferdinando Camon in una serie di romanzi, uno più bello dell’altro. Era però logico aspettarsi che il narratore padovano non dovesse avere il privilegio dell’esclusiva, relativamente a questo grande tema, e così altri hanno avvertito la necessità di parlarci, dal loro punto di vista, della fine di questa civiltà. Fra questi c’è un narratore lucano che ha fatto in tempo a vedere come era il mondo contadino, benché da ragazzo (è nato nel 1935), scrivendo un romanzo in proposito (L’animale a sei zampe). Si tratta della storia di una famiglia lucana nella prima metà del secolo scorso, i cui grandi eventi (La Grande Guerra, l’imporsi del fascismo e la seconda guerra mondiale) sono visti dal basso, cioè da chi li ha subiti. E questa è anche la prospettiva migliore per scoprire i prodromi, i contesti, per avere un’idea abbastanza precisa di come una famiglia dell’epoca, non ricca, ma nemmeno povera, conducesse la sua esistenza. Se i personaggi sono parecchi, i protagonisti principali sono due, il Capitano (è un appellativo) che conduce una piccola azienda agricola di proprietà, e la sua giumenta, la cavalla Ida; entrambi sono complementari l’uno all’altro, in un rapporto di padronanza e sudditanza che non esclude, anzi prevede, una sorta di reciproco affetto. Sono loro il filo conduttore dell’opera che si snoda implacabile, senza liturgie retoriche, nell’arco di mezzo secolo, sconvolgente per i fatti che lo caratterizzarono, ma che non lasciava intravvedere o presupporre che a pace raggiunta un mondo che si credeva eterno sarebbe invece scomparso. Il ritmo è volutamente lento, come certamente non rapide erano le giornate in quell’epoca in campagna, e insieme alla storia di questa famiglia, grazie alle frequenti digressioni, anche altri personaggi hanno modo di mettersi in luce per le loro caratteristiche, finendo con il concorrere a formare un grande affresco con al centro loro, il Capitano e la giumenta, e tutti all’intorno affacciati sul mondo uomini, donne e anche animali, in un’atmosfera rarefatta, un po’ polverosa, tipica delle cose antiche, un bianco e nero virato seppia che infonde una pacata malinconia. Scritto con un italiano eccellente, anche se un po’ inconsueto ai giorni nostri, L’animale a sei zampe, pur non avvincendo in modo particolare per il suo ritmo, riesce ad attrarre per le continue scoperte di una realtà che mai a noi sarà dato di provare e che pare talmente lontana da far pensare a un parto di fantasia. Ci si chiede se si viveva così, se la superstizione s’accompagnava, sovente soverchiandola, alla religione, se erano più felici di adesso, avendo poi poco o quasi nulla. Sotto questo aspetto Celano non si pronuncia e da naturalista, forse inconsapevole, si limita a rappresentare vicende, paesaggi, atmosfere, stati d’animo, il tutto con meticolosa e certosina precisione. E in questa asetticità dell’autore sta un altro dei meriti di questo romanzo, certamente riuscito, anche se lontano dall’essere un capolavoro; bello è bello, è pure interessante e inoltre le pagine scorrono sì lentamente, ma anche gradevolmente, insomma mi sembra che sia più che meritevole di lettura.
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