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Anno edizione: 2020
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“Quei calzini bianchi, troppo corti, diventarono il punto focale della sua attesa”. Comincia così, con un particolare domestico e prosaico ma immesso in una bolla di attesa indefinita e lirica, la comparsa del personaggio di Claudia: una bambina triste. Una ragazza infelice. In fuga. Il suo punto di partenza, un lago senza nome ma probabilmente immobile e senza vita. Il suo punto d’arrivo, il mare, eternamente in movimento, carico di promesse. Lì dove la terra finisce. Di Claudia si sa poco, ma l’incontro casuale con Davide e Marta in un paesaggio di ulivi e mandorli fa emergere sempre più nitidi, come un ricamo che prende lentamente forma, i caratteri di questi tre personaggi, vertici di un triangolo amoroso perfetto. L’amore triste di Davide e Marta, privi di speranze e di figli, reclusi nell’isolamento di una casa solitaria, riprende vita grazie alla ventata di giovinezza che Claudia porta con sé. Da quel momento il loro legame esclusivo e segreto, carico di erotismo e di tenerezza, si svolge in un tempo presente che sembra non chiedere altro. E tuttavia la suggestiva atmosfera di non detto, di vita sottintesa, di particolari taciuti ha delle smagliature perché al di sotto della casa imbiancata dove vivono Marta, Davide e Claudia, c’è una montagnola di sedimentazioni accumulate nei secoli, un vero e proprio tesoro archeologico che, una volta scoperto, minerebbe alle basi quella piccola costruzione che svetta solitaria sul paese sottostante. Basterebbe il ritrovamento casuale di un’anfora greca per mettere in forse lo splendido isolamento dei tre amici-amanti. Chi se ne rende perfettamente conto è Davide il quale, peraltro, avverte un’inquietudine che non è determinata solamente da quella sua casa abusiva che potrebbe essergli espropriata, ma anche dai fantasmi che la abitano. Sono fantasmi della sua mente, appartengono a un passato trascorso, ma nelle pagine si stagliano con una plasticità forte, carica di carnalità e di ferocia: Nadira, la madre, una donna abituata alla terra, alla fatica, alla brutalità, sepolta sotto un mucchio di pietre bianche che spiccano sullo sfondo di cipressi sempreverdi; Samuele, il padre, incapace di baci; lo zio Nicola e la sua pecora di cui il paese intero continua a parlare tra risatine di allusione. Qualcosa di antico, di atavico o addirittura fuori dal tempo come un mito doloroso che si sporca quando cala nel presente: storie minime di uomini minimi e tuttavia resi giganteschi da una sorta di fatale accettazione di tutto ciò che risuona come un primitivo assoggettamento alla natura e alla circolarità delle stagioni. C’è una vistosa contraddizione tra la vita semplice e ottusa degli abitanti del paese e quella “libera” del terzetto e quando Claudia rimane incinta, la decisione di condividere la gioia di una nascita si accompagna alla volontà di tenere nascosti i loro rapporti. A questo punto il tempo della storia e del racconto subiscono un’accelerazione: la vita gioiosa e spensierata del ménage à trois si tramuta in qualcosa che deve rimanere segreto. Dopo un primo progetto di ricoverare Claudia in ospedale coperta da un burqa per renderla irriconoscibile e permettere così a Marta di apparire al mondo come la vera madre, Davide opterà per un suo trasferimento nella vecchia masseria abbandonata del padre. E qui entrerà in gioco il mondo multicolore del popolo del vento, una comunità di zingari accampati lì vicino; e qui ritorna il motivo degli occhi verdi di Nadira, gli stessi della zingara Zara che si prenderà cura di Claudia; e qui fa il suo ingresso il gioco sfavillante del ballo degli zingari mirabilmente descritto in una delle pagine più belle del romanzo. Passato e presente tornano in un gioco che prende forma nella lettura del futuro e nel racconto del passato. Cosa accadrà da questo momento in poi? Autoinganni, nuove fughe, felicità o disperazione? Qualcosa di arcano? Lo scoprirà il lettore alla fine dei capitoli brevi di questo suggestivo romanzo diviso in riquadri come un terreno da edificare. Lo scoprirà quando leggerà che Davide “sollevò lo sguardo per accertarsi che la casa fosse ancora lì e non l’illusione della sua mente, perché d’improvviso tutto ciò che era intorno gli parve irreale”. Sì, perché la casa sul pizzo, ultima certezza, è la tessera più importante del mosaico. Lì dove la terra finisce.
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