Archiviato il primo decennio del suo percorso discografico da solista con la fortunata raccolta del 1997 “Paint the Sky with Stars”, Enya si ripresenta all’alba del nuovo millennio con un disco tanto personale quanto memore di una ‘formula’ ormai rodata. Se da un lato è infatti inevitabile cogliere echi del passato (ad esempio, la delicata ‘title-track’ non può non evocare la memorabile apertura pianistica di “Watermark”, mentre la gotica ‘Tempus Vernum’ – ideale prosecuzione della marziale ‘Pax Deorum’ dell’album precedente – si basa addirittura su uno strumentale composto ai tempi della colonna sonora del documentario della BBC ‘The Celts’), è altresì innegabile che l’enfasi posta sugli archi (e sul pizzicato) in tracce quali ‘Wild Child’, ‘Flora’s Secret’ e ‘One by One’ trasmetta un sostanzialmente inedito senso di euforia legato al ciclico risveglio della natura. Allo stesso tempo, si registra uno slittamento tematico verso l’amore, cantato non più con toni quasi metafisici bensì nella sua terrena urgenza e caducità. A condurre il disco al suo stratosferico successo (16 milioni di copie vendute) furono indubbiamente le atmosfere morbidamente dilatate del singolo ‘Only Time’ (assurto ad elegiaco inno in memoria delle vittime degli attacchi dell’11 settembre 2001), ben lontane dal ritmico incalzare dei precedenti successi in classifica della musicista irlandese. Non meno degne di nota sono poi, per motivi opposti, l’intensa performance vocale della struggente ‘Fallen Embers’ (che dimostra come la voce di Enya non abbia bisogno di una gran quantità di effetti per emozionare) e la conclusiva ‘Lazy Days’, in cui la tecnica nota come ‘multi-tracked vocals’ giunge al suo culmine estremo con l’innalzarsi, strato dopo strato, di un’impressionante e trionfante cattedrale di voci. Complessivamente inferiore ai tre album precedenti, “A Day Without Rain” conferma tuttavia sia l’appeal commerciale che le peculiarità dello stile inimitabile della sua autrice ed interprete.
