De finitudine. (Sulla nozione di finito e su altre questioni oziose)
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Nella storia del pensiero filosofico il tema del "nulla" e della "finitezza" è stato dibattuto fino alle conseguenze estreme della riduzione hegeliana della negatività ad esito della natura ostensiva del linguaggio. Cogliendo la matrice di tale processo nella scissione aristotelica dell'"oùoia", Giorgio Agamben ritrovava, tuttavia, in tale frattura la ragione non solo di ogni metafisica - costituente di per sé il tema originale della filosofia - ma di ogni scienza che, muovendosi più o meno consapevolmente nell'ambito tracciato dalla metafisica, presupporrebbe, comunque, la differenza tra l'indicare ed il significare. Impostazione, questa, che ha determinato nell'arco degli ultimi duemila anni una sorta di divaricazione della filosofia dagli assunti metodologici del pensiero scientifico ed una sottovalutazione delle risposte da questo fornite all'enigmaticità tematica del "nulla". Avendo, tuttavia, la fisica attuale posto al centro della sua ricerca l'informazione, la scienza è tornata per qualche verso a dialogare con la filosofia secondo una consuetudine originaria. La natura del rapporto dell'osservatore con il mondo, inteso come sistema niente affatto oggettivo di relazioni univoche - ripropone, peraltro, in altra forma, quella relazione - coincidente, per Paul Chauchard, con lo psichismo riflesso - che, una volta nata come effetto di un gioco di probabilità, non potrebbe essere colta in seno al cosmo come una semplice struttura passeggera. Prospettiva, questa, nella quale le nozioni di "finitezza" e di "nulla" altro non denoterebbero, in una comune prospettiva gnoseologica, che la definitiva estinzione di tale super-struttura, la scomparsa del suo sguardo dal mondo.
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Anno edizione:2017
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