In questo saggio più che in altri, Derrida imbastisce un festoso modello di giochi di parole, rimandi, eco e allusioni destinati a decostruire sia la pretesa della critica di dire la verità sulla letteratura, sia quella della filosofia di annettersi l'attendibilità e la testamentarietà del testo letterario.
Tutta la filosofia di Derrida può essere letta come un ininterrotto seminario sul segno, sulla sua natura arbitraria e sulla sua impossibilità costitutiva di restituire la presenza nella sua integrità. La tesi principale del filosofo francese sostiene che il nostro linguaggio è contagiato dalla dispersione, dall'assenza, dalla perdita, dal rischio continuo di non essere supportato. Da una parte, la filosofia tenta invano di controllare lo spargersi incontenibile del suo significato, si batte contro la ruvida grana del linguaggio per offrire una pulita rivelazione della verità. Dall'altra la letteratura esibisce la sua insincerità, abbandonandosi al dionisiaco fermento del linguaggio.
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