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Nominare, ecco, non il nome voglio; rivelare tutto ciò che è prima: carne, e polvere e miseria e cerchio conoscere. Estrapolo da questo seme la bellezza. Voglio bloccare qui il sismografo della grafia, la soglia che mi tiene nel tremore della lettura. E viene quasi una paura di vedere, viene quasi il sospetto che un dio manovri queste lettere, le spinga coi piedi amputati. “Rivelare” “ciò che è prima”, “conoscere” “voglio”, “carne, e polvere”. Siamo all’imperativo e all’infinito ma siamo nel cuore del gerundio, perché tutto nasce soffrendo; col tono della lingua entriamo nell’attimo di esatto mutamento, nel luogo dell’assalto direbbe il poeta, in quell’assolo liturgico che è silenzio frontale dove nascemmo. La parola di Mattia cerca un luogo originario, una specie di molecola incendiaria introvabile. Mattia scava per arrivare a toccarla in quel covo profondo dove dovrà accadere, e un lampo lo risucchia cantando. Feriti alla fonte, nel buio piccolo e osceno che è già umore del sangue, la sillaba s’incrina e il pianto straripa. E’ urina e incenso: l’attimo di luce spalancata: il gesto del fiore che si apre con violenta bellezza. L’onda emorragica travolge un lamento di vita, l’umore si ricrea nella lacerazione e porta un corpo di figure a gridare la propria sofferenza. Somiglia al pianto di un neonato. Somiglia al precipizio di un nome. Si deve intendere questo rumore di fondo, che è di bosco e caverna, urto di magma nervoso dove comincia un regno di amore e morte. Si deve gridare nel cavo di un osso, tirare dai capelli un’eco che espanda il dolore, ne dia frammenti di colpa e vergogna, sanguini dolcemente. Ecco, Mattia sta lì. Non lui ma il suo guardiano. Il custode della sua voce alata che germina nel segno di una gola e sale altissime pareti. Giovanni Perri
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