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Le prime frasi del romanzo
Stavo sognando il fuoco. Davanti ai miei occhi chiusi le fiamme s’erano trasformate in costruzioni dalla sagoma incostante, capanne dalle cui pareti vive si staccavano ogni tanto croste nere, poi bocche d’animali luminosi che mangiavano e scappavano nell’ombra.
Fuori c’era il vento; il vento mi mette nervoso, ancor piú di notte, eppure mi ero addormentato. Avevo detto all’Ida, di sopra già da un po’, «Adesso arrivo», ma poi m’ero abbracciato allo schienale della sedia, con l’attizzatoio nella mano buona.
Col vento, il camino tirava male. Le fiamme correvano sdraiate, aggirando un ostacolo invisibile. Le capanne nel mio sogno stavano andando a fuoco, abbandonate, forse gli abitanti erano stati quegli animali che scappavano; le travi dei tetti cadevano in terra, annerite, tum, tum. Non so quanto mi ci è voluto per rendermi conto che qualcosa al di fuori del sogno sbatteva davvero alla porta, e anche forte: una serie di colpi irregolari, squilibrati, d’intensità diverse. Stavo quasi per alzarmi e andare fuori al buio a controllare: erano i vasi grandi dei ginepri, che il vento mandava a rotolare contro l’uscio? L’Ida aveva legato i rami la settimana prima. «Trapiantali», le avevo detto in primavera, ma secondo lei non era ora.
Oppure qualcuno bussava? I colpi hanno smesso e quindi io, nel pensare se alzarmi oppure no, ho passato quel mezzo minuto che li ha fatti andare via dalla mia mente, lasciando di nuovo spazio al sogno. Cosa fossero stati veramente, l’avrei accertato con il giorno.
Non ho fatto in tempo però a riaddormentarmi, perché è suonato il campanello: due tocchi puliti, garbati, distinti da un intervallo in cui s’immaginava una sorta di rispetto.
Quindi mi sono deciso. La mano, che avevo lasciato inconsapevole a gonfiarsi e penzolare dalla sedia, mi formicolava: era il suo modo di farsi ricordare, ogni mattina che m’alzavo. Con quella buona mi son tirato su. L’Ida in camera s’era svegliata: – Giampiero, chi c’è?
Mentre andavo all’entrata, di nuovo la porta si è messa a tremare per dei colpi sconclusionati, neanche la volessero sfondare.
– Oh, calma, sei dietro a morire? – ho detto io, e l’Ida dal letto: – Giampiero, chi c’è a quest’ora?
– Adesso l’imparo e ti dico.
Ho aperto: era Davide. Grandone, alto com’è sempre stato, tanto che cammina preparato a chinarsi per passare dalle porte. È proprio dalla stazza che l’ho riconosciuto, perché la luce esterna era strinata e lui non ha parlato, inizialmente: ho ravvisato un uomo che nel momento in cui aprivo si tirava indietro, al buio; ero sorpreso perché non avrei mai detto di vedermelo ritornare all’uscio, ma un attimo dopo ho pensato (ed è stato peggio): era destino che arrivasse, prima o poi. Gli occhi ha dovuto abbassarli, per riuscire a guardare me in faccia. Non lo faceva da un bel po’ di anni. Non ho avvertito odore d’alcol, e ho avuto sollievo nel vederlo nuovamente in forma, sbarbato, i capelli castani ordinati in un’onda, da bimbo biondissimi e adesso, rispetto all’ultima volta, stempiati alla scriminatura. Lui se li copriva dal vento con un braccio, in modo buffo, come un ragazzone che uscisse per ballare. Aveva addosso i suoi anfibi da buttafuori, e un maglione di lana infeltrito, di quelli per cui la Silvia un tempo lo prendeva in giro e che però continuava a regalargli, con i fiocchi di neve, i cervi e le stelline. Ma lí sulla porta, per me, sono stati i suoi occhi il problema, perché aveva due occhi impressionanti, come infiammati e soggiogati da uno spirito che li avesse invasi e li stesse facendo ammattire.
– Fammi entrare, Giampiero, – mi ha detto, e quindi io l’ho fatto entrare.