Questo film mi ha provato ancora che è troppo sottile la differenza tra sostanza e contenuto. Se qualcuno me lo chiedesse, essa è insignificante. I festival sono pieni di film che nessuno ha capito, e che si ostina a definire con qualche aggettivo standard che non ha niente a che fare con il prodotto di un genio. O, peggio ancora, molti danno un giudizio complicato e altisonante pieno zeppo di termini ricercati, tutte vaghezze utilizzate da chi palesemente brancola nel buio: certe persone, private della possibilità di servirsi delle categorie bello/brutto vanno in tilt. Quasi nessuno ha il coraggio di ammettere che il linguaggio è troppo limitato dal suo uso comune, per potersene servire per una descrizione efficace. Sembra che l'umanità abbia un bisogno ancestrale di dare giudizi secondo parametri comprensibili. Ma allora per cosa lottano gli artisti? Non certo per l'uniformità dei segni liguistici o per l'equiparazione dei punti di vista. Loro creano per la libertà dell'emozione. La vera arte non ha destinatario, o, se ce l'ha, essa è vera quando ne colpisce uno diverso. La vera scrittura per Roland Barthes è << sapere che non si scrive per l'altro, sapere che le cose che sto per scrivere non mi faranno mai amare da chi io amo, sapere che la scrittura non compensa niente, non sublima niente, che è precisamente << là dove tu non sei : questo è l’inizio della scrittura>>. Le persone di fronte a un film come questo non sanno che pensare, i loro neuroni ping-pongano nel cervello alla ricerca di un aggettivo diverso da “diverso”. A me non interessa cosa vuole dimostrare l’autore, è l’emozione il punto di partenza del mio giudizio. Se il film mi ha emozionato, allora è bello. Se mentre lo guardavo pensavo a contare i sedili del cinema, allora è brutto. Così io ho reso l’idea e il mondo ha di nuovo le sue categorie bello/brutto. Ma l’emozione non si può spiegare con parole stuprate. Posso considerare la trama incomprensibile, ma mi ha emozionato. E se l’ho amato non importa averlo capito, non mi importa, io non sono qui. Giulia Gianni
New York, dicembre 1975. Dopo l'ultimo concerto della Rolling Thunder Revue, il giornalista Larry "Ratso" Sloman tallona Dylan fino al suo albergo per strappargli u'ultima intervista. Sloman lo stuzzica, ricordando a Bob che sono in tanti a pensare che sia un grande autore di testi ma che non sappia niente di musica. Dylan non perde la calma: non ha mai preteso di capire la musica e chiunque l'abbia sentito suonare la chitarra lo può confermare. "Io sono solo un artista", aggiunge ridendo. Il film di Haynes racconta sei approcci diversi per trovare il modo di esprimere questa arte, che sembra espressione di una moltitudine. Dylan ha estratto da se stesso personaggi in netta contraddizione tra loro, la cui rappresentazione deve trascendere i limiti dell'individuo, della razza e del genere sessuale.
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GIULIA GIANNI 09 gennaio 2008
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