(Sarsina, Umbria, 259/251 - Roma 184 ca a.C.) commediografo latino. Nulla di preciso sappiamo della sua vita. Anche il nome è dubbio: Maccius (da Maccus, maschera dell’atellana, l’antica forma teatrale popolare) e Plautus (piedi piatti) potrebbero essere soprannomi legati alla professione teatrale. A questa P. si dedicò in maniera totale come autore, attore, capocomico, organizzatore di spettacoli. Secondo Gellio, perse il denaro accumulato in questa attività e fu per un certo tempo schiavo per debiti; le commedie scritte in tale periodo gli avrebbero ridato la libertà e un nuovo successo, che lo accompagnò poi sino alla fine.Le opere di Plauto e il loro pubblico A suo nome circolarono un gran numero di opere. Varrone Reatino ne distinse 21 sicuramente autentiche, che sono anche le uniche pervenuteci, alcune lacunose, l’ultima frammentaria: Amphitruo (Anfitrione); Asinaria (La commedia degli asini); Aulularia (La commedia della pentola); Bacchides (Le Bacchidi); Captivi (I prigionieri); Casina (La fanciulla del caso); Cistellaria (La commedia della cassetta); Curculio (Il verme del grano); Epidicus; Menaechmi; Mercator (Il mercante); Miles gloriosus (Il soldato spaccone); Mostellaria (La commedia degli spettri); Persa (Il persiano); Poenulus (Il giovane cartaginese); Pseudolus; Rudens (Il canapo); Stichus (Stico); Trinummus (Le tre monete); Truculentus (Lo scorbutico); Vidularia (La commedia del baule). Sappiamo la data di composizione solo dello Stichus (200 a.C.) e dello Pseudolus (191 a.C.); la cronologia delle altre è definibile in base a elementi interni, ipotizzando un’evoluzione del teatro plautino dalla farsa a una specie di commedia musicale: va però detto che nessuna ipotesi evolutiva generale s’è affermata nettamente.P. scrive per un pubblico composito, ma nel quale predomina l’elemento popolare e la cui attenzione, in teatri provvisori, lignei, rumorosi, va catturata con una comicità esplicita e prepotente. È il momento delle guerre puniche: sta maturando l’imperialismo mediterraneo di Roma, le cui radici, tuttavia, sono ancora saldamente italiche. Tra poco la cultura greca, importata dalla parte più raffinata dell’oligarchia dominante, diverrà la copertura intellettuale di questa classe e si sovrapporrà agli elementi rozzi ma vitali delle tradizioni locali.Modelli e stereotipi P. riflette ancora, nella sua opera, questa ricchezza di apporti: nelle sue commedie vi sono tracce dell’antico teatro popolare latino, di derivazione osca o etrusca, e spunti della vita quotidiana di Roma; lo schema, invece, è già mutuato dalla greca «commedia nuova», e greci sono i nomi dei personaggi. Quanto poi P. debba ai suoi modelli (soprattutto Difilo, Filemone, Demofilo, solo in parte Menandro) è difficile stabilire; certo è che gli antichi avevano tutt’altra idea dalla nostra sull’originalità e sui limiti del plagio, e che la contaminatio (spostamento e fusione di scene tratte da opere diverse) e la ripresa di intere trame erano largamente praticate. Inoltre erano previste alcune situazioni fisse (l’amore del giovane per una bella schiava che sarà poi riconosciuta libera; la presenza di vecchi comprensivi o rivali in amore; gli inganni astuti dei servi), situazioni che dal teatro classico passeranno a quello rinascimentale e alla commedia dell’arte. All’interno di questi stereotipi si snodava la ricchezza dell’intreccio, perfetto meccanismo dagli scatti obbligati, e si dipanavano le occasioni di ilarità. Inutile, quindi, cercare finezza di tratteggio o approfondimento psicologico: i personaggi erano dei tipi (simili, in questo, alle maschere dell’atellana); la comicità era affidata a digressioni esilaranti, a battute salaci o beffarde, a dialoghi scoppiettanti.L’invenzione linguistica e la metrica di Plauto Pregio grandissimo di P. è la sua prodigiosa ricchezza linguistica, grazie alla quale sfrutta ogni apporto: dal latino arcaico al neologismo coniato sul greco, dalle deformazioni grottesche a volgarità che oggi si direbbero surreali. P. non è certo il comico rozzo e istintivo che spontaneamente parla il linguaggio della plebe, ma il letterato colto che assume e rielabora un lessico vario con raffinata abilità e che usa con formidabile padronanza le possibilità musicali della parola, dando l’impressione di una assoluta immediatezza. L’inventiva e la straordinaria ricchezza metrica di P. (i suoi numeri innumeri), l’abilità con cui desume dai metri greci un ritmo per il latino, ne fanno uno stilista impeccabile. Tale aspetto si accentua col procedere della sua opera, in cui i cantica (parti cantate da un solo attore) prendono il sopravvento sui diverbia (parti dialogate), tanto che le ultime commedie si possono accostare all’opera buffa.Riscoperte e reincarnazioni del teatro plautino La fortuna di P. cominciò a declinare con il classicismo dell’età augustea. Il movimento arcaicizzante del sec. II lo fece rivivere solo in sede erudita. Nel medioevo, persa la conoscenza della sua metrica, si preferì il più castigato Terenzio. La riscoperta avvenne con l’umanesimo: P. fu rappresentato in latino, tradotto, imitato (Ariosto, Machiavelli, Bibbiena ecc.). Allora, tuttavia, si colse di lui l’aspetto meno originale: quello della trama, adottabile come comodo canovaccio. Tracce plautine sono comunque rintracciabili anche là dove minore era l’imitazione dei classici: si pensi alla Commedia degli equivoci di Shakespeare (rimaneggiamento dei Menaechmi) o agli spunti che il Miles gloriosus fornì alla commedia dell’arte per il personaggio del Capitano. Notevole la versione semidialettale del Miles di P.P. Pasolini, col titolo Il vantone (1963).