Diversi (inevitabili) nomi di riferimento vengono in mente in modo un pò caotico ascoltando i vari albums dei Placebo: Catherine Wheel, Suede, l'icona assoluta di tutto il movimento "wave" David Bowie, con il suo fascino "decadente"... Flashback. La label "indie" Hut, ha scovato e portato all'attenzione del mondo tre bands principali: prima Verve (alti e bassi nei loro albums, il migliore è forse "Storm In Heaven" ma con quella stra-famosa canzone dagli "Inni Urbani" riuscirono a piazzare il singolo più venduto dell'era brit-rock, battendo Blur e Oasis), poi Smashing Pumpkins (talento e genio creativo straordinari, da "Gish", gioiellino di rock post Bauhaus-Jane's Addiction, a "Siamese Dream", capolavoro parallelo al grunge, "Mellon Collie and The Infinite Sadness" pietra miliare del rock anni novanta, un'opera rock a 360° su scala tridimensionale), e infine Placebo. Il denominatore comune di queste tre bands è il successo raggiunto molto, forse troppo velocemente, unito ad una non esattamente brillante dimestichezza con i palchi (un po’ discutibili a livello qualitativo come live performers), segno indiretto di musicisti troppo precocemente proiettati dal "garage" alle arene mondiali. O forse di una pianificazione a livello di marketing troppo pesante che ha inficiato le qualità migliori di artisti dotati di talento. Ciò detto, va aggiunta una considerazione centrale. I Placebo, ed il loro frontliner Brian Molko non fanno "esattamente" rock-music. Nel senso che, per uno slancio particolare per la plus-valenza letteraria delle lyrics (legame consolidato nella new wave quello tra letteratura, poesia, musica e arti figurative) l'aspetto lirico e poetico è divenuto complanare alla musica se non dominante, e tale da far quasi passare in secondo piano la costruzione del sound. Che globalmente non sarà, quindi, molto originale. O comunque non sarà il motivo principale di attrazione per cui ascoltare un disco dei Placebo. In altri termini, Brian Molko non canta "tradizionalmente" rock songs, con la consueta declinazione pop, ma declama versi in musica. Che poi tale suono coincida con lo stesso impianto post-brit rock, potente e ben costruito, con venature dark-wave, con accenti heavy, etc., la sostanza non cambia: per capacitarsene basta leggere alcuni titoli anche di quest'ultimo "Meds". Che fa seguito all'omonimo esordio, al successivo e più interessante "Without You, I'm Nothing", con momenti davvero intensi ed emozionanti ("Burger Queen", "The Crawl"), il successivo "Black Market Music" musicalmente omogeneo e potente, liricamente la massima espressione della poetica di Brian e Co., ma troppo pesante per suscitare grandi entusiasmi. Poco immediato, forse perchè troppo mediato, troppo “pensato”. Dopo “Sleeping With Ghosts”, che tracciò l’inizio dell’evoluzione che ci si attendeva, con "Meds" quest'ultima conduce al raggiungimento del punto di equilibrio tra l'intuizione pop-melodica di "Without You, I’m Nothing" e la propensione poetico-narrativa di Brian Molko. Poesia, Letteratura. Questa passione traspare da titoli come "Nella luce fredda del mattino", "Dopo la tristezza", "Ritorno a casa seguendo la Polizia". Brian Molko ha una voce bella e particolarissima, simile a Michael Stipe, ma più densa, acuta, salmodiante, declamatoria, appunto. Verrebbe da dire: una voce impressionistica, che per lo stile di canto fa quasi perdere di vista la musica stessa, perchè come nei dipinti di Signac, o di Seurac non ha bisogno di "contorni" e demarcazioni che la mettano in risalto su un metaforico sfondo. Quest'album peraltro annovera alcuni momenti musicalmente davvero riusciti come "Infra-Red" (contraltare di "Ultraviolet" degli U2?), e la citata "Follow The Cops Back Home", notturna e pervasa da un sentimento di profonda malinconia, il duetto con Michael Stipe di "Broken Promise", prima lenta e pianistica poi esplosiva e potente, come la title track posta in apertura, gioiellino power-pop "alternative" al punto giusto, duetto con VV dei Kills, stacco acustic-metal, contrappunto voce femminile/maschile e melodia pop assolutamente perfetta; ci sono poi un paio di episodi che per la forza suggestiva si staccano dal resto dell'album: "Post Blue" segna il confine della malinconia; il risveglio di "In The Cold Light of The Morning" sembra un contrappunto a quello nella luce calda di "Pure Morning", fino alla perfetta chiusura, "The Song To Say Goodbye", nulla da dire, soltanto bellissima. Non c'è molto altro da aggiungere, se non che si tratta di un lavoro leggibile come un concept-album sul tema della malattia e della morte, quindi implicitamente una riflessione sulla vita, temi forti, intensi, come interessante è notare che dopo "The Cure" e "Therapy?" è giunto l'inconsapevole aiuto dell'effetto "Placebo". Forse non sono (ancora) paragonabili ai citati maestri della new-wave, forse non lo diventeranno, forse a certa critica non piacciono. Ma non conta poi molto. Perchè a volte l'emozione spazza via geometriche riflessioni in cui si cerca inutilmente di riempire di sabbia una bottiglia di plastica vuota, discussioni acriticamente critiche, perchè in fin dei conti c'è bellezza anche in una bottiglia lasciata vuota sulla spiaggia.
Meds
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Disco 1
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