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Come è notorio Arthur Conan Doyle (Edimburgo, 22 maggio 1859 – Crowborough, 7 luglio 1930) è stato il creatore del personaggio di Sherlock Holmes e con lui del genere del giallo deduttivo. Di professione medico, si incarnò nell’assistente investigativo John Watson, medico pure lui, dando vita a una coppia di protagonisti tanto diversi quanto interdipendenti e tali da conferire alla narrazione motivi di ulteriore interesse per i loro contrasti caratteriali. E peraltro, se al freddo e razionale Holmes fa da contrasto il più umano e meno perspicace Watson, a quest’ultimo è affidato il compito di raccontare le varie vicende, insomma un vero e proprio io narrante. Doyle di Holmes scrisse in tutto quattro romanzi e una cinquantina di racconti, forse troppo pochi per esaurire il ciclo di un personaggio che incontrò subito un grande successo. La tentazione, quindi, di far rivivere il genio investigativo inglese è i più che legittima e in tal senso ha provveduto la scrittrice inglese Rohase Piercy inventando il ritrovamento di alcuni taccuini confidenziali di John Watson e facendo rivivere la coppia di detectives in due nuovi casi, ovviamente risolti brillantemente. Non è però l’aspetto giallo che interessa tanto all’autrice, quanto invece lo strano rapporto intercorrente fra Holmes e Watson, ipotizzando una passione segreta del medico per l’investigatore, che, pur non contraccambiando, sembra tuttavia interessato al compagno di avventure ben oltre l’aspetto tecnico della loro relazione. Siamo in epoca vittoriana, di costumi castigatissimi, di leggi che vietano l’omosessualita, stranamente però solo fra maschi, e non fra le femmine, tanto che la trama è intessuta e infiorata da relazioni saffiche, nemmeno tanto velate. Peraltro in Holmes, freddo e impenetrabile, ci sono atteggiamenti tali da indurre in Watson la convinzione che non sia insensibile alle attenzioni dell’amico, senza che però ciò si traduca in un trasporto affettivo certo e inequivocabile. Il libro della Piercy gioca molto su questo aspetto e il lavoro dell’innamorato finisce con il diventare un giallo nel giallo, mantenendo vivo l’interesse del lettore che agogna di sapere se tutte le arti e le azioni messe in campo dal medico inglese andranno poi a buon fine. Non dico altro, al riguardo, per lasciare il piacere della scoperta a chi leggerà queste pagine, scoprendo di volta in volta un gioco vecchio quanto il mondo. Piuttosto mi preme evidenziare la riuscitissima ambientazione, l’atmosfera di un’epoca puritana, ma comunque solo di facciata, visto che lo scandalo è l’ombra di benpensanti, austeri e rigidi nell’apparenza, deboli e infelici nella sostanza. Si ricrea così assai bene il periodo vittoriano anche con il modo di parlare dei personaggi, con quel dire e non dire, con una certa tendenza a un accentuato formalismo, a tratti perfino stucchevole, e qui devo dire che se larga parte del merito va all’abilità narrativa della Piercy la traduzione di Chiara Rolandelli è puntuale e corretta perché non ne spegne e non ne smussa lo spirito. Mio Diletto Holmes finisce così con il diventare un pamphlet contro una società intimamente corrotta che vive una realtà apparente non in linea con la sua essenza, un mondo dove tutto deve essere “puro” (almeno nel concetto dell’epoca) e che poi, in questa discrasia fra l’essere e l’apparire, ingenera infelicità e crea mostri quali Jack lo squartatore. Il libro è per questi motivi indubbiamente interessante e, aspetto non di certo trascurabile, risulta di gradevole lettura.
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